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 2013  gennaio 24 Giovedì calendario

LE BANCHE ITALIANE: «NON ABBIAMO PRODOTTI SPECULATIVI IN PORTAFOGLIO»


Magari qualche altra mela marcia esiste ma, stando all’analisi dei numeri compiuta da Mediobanca e alle dichiarazioni ufficiali degli stessi istituti, il sistema bancario italiano non dovrebbe inciampare in uno scandalo derivati.
Partiamo dai numeri. Lo studio dei bilanci delle principali banche italiane fa emergere che il rapporto tra derivati e mezzi propri è ben distante dai valori medi espressi dal resto d’Europa. Prendiamo per esempio Intesa Sanpaolo, in termini assoluti la banca ha derivati attivi nei conti dei primi sei mesi dell’anno per 59,7 miliardi di euro, pari al 9% del totale dell’attivo e all’1,8% del patrimonio netto tangibile. UniCredit ne ha qualcosina in più. Sempre stando al bilancio del primo semestre, in termini assoluti ha derivati attivi per 118 miliardi che corrispondono al 12,4% del totale degli attivi e al 2,4% del patrimonio netto tangibile. Due valori decisamente inferiori rispetto alle percentuali riportate dalle banche tedesche dove il rapporto tra i derivati e il totale dell’attivo in media si aggira attorno al 33%. In generale, quanto espresso dai principali istituti italiani è il valore più basso che si può registrare in Europa: inferiore a quello delle banche svizzere, inglesi, francesi e spagnole. E lo scenario non cambia se si considerano anche gli altri istituti. Basta guardare anche nei bilanci del Banco Popolare e di Ubi Banca: per la prima risulta un’incidenza del monte derivati sul totale degli attivi pari al 4,5%. Un dato che scende addirittura all’1,4% per Ubi.
In sostanza, tutte le banche italiane hanno in portafoglio derivati ma in misura decisamente inferiore rispetto ai competitor europei e, soprattutto, gli istituti assicurano che si tratta esclusivamente di derivati di copertura legati all’attività ordinaria. Nulla di tossico o che all’improvviso si possa trasformare in un boomerang in grado di ribaltare il bilancio della banca.
E così, UniCredit ci tiene a ricordare e confermare la recente svolta che la porta ad essere prima di tutto una «banca commerciale» che ha chiuso con il mondo dei derivati, quelli speculativi, e della finanza strutturata. Lo stesso amministratore delegato, Federico Ghizzoni, quando ha varato il cambio di rotta si è impegnato con il mercato e i clienti: «Saremo una banca commerciale solida come una roccia». Un intento che, assicurano dall’istituto, resta la missione cardine della banca. Quanto a Intesa Sanpaolo, un portavoce ha risposto così: «I nostri bilanci sono trasparenti e rispetto ai prodotti strutturati diamo la massima informativa». E le piccole? Ubi Banca conferma di non aver mai avuto «titoli tossici in portafoglio» e sui derivati spiega che opera «solo in misura marginale e legata all’attività ordinaria» del gruppo. Il Banco Popolare, da parte sua, sottolinea che, «anche per la sua vocazione di banca commerciale al servizio del territorio, non ha investimenti finanziari in asset tossici». Lo stesso vale per Bpm che precisa: «Non abbiamo derivati speculativi».
Prese di posizione nette che, sulla carta, corrispondono all’attitudine storica del sistema bancario italiano. «Lo dimostra il fatto – spiega Antonio Guglielmi di Mediobanca Securities – che una delle tematiche chiave di Basilea 3 sono i derivati e in particolare gli strutturati e che buona parte degli istituti europei proprio per questo si troveranno a fronteggiare dei problemi di patrimonializzazione, mentre per le banche italiane il problema non si porrà nemmeno». Mps, quindi, per Guglielmi, «è un caso sui generis coerente con la storia della banca che a valle dell’operazione Antonveneta si è trovata a dover tappare le falle di quell’acquisto dissennato». Insomma, le scelte di Mps sarebbero tutte da ricondurre a quell’operazione di M&A e alla necessità di coprirne i punti deboli. Questo, alle altre banche italiane non è toccato.