Antonella Olivieri, Il Sole 24 Ore 24/1/2013, 24 gennaio 2013
MINA DERIVATI NEI BILANCI DEI BIG ESTERI
Che i derivati siano una mina vagante per i bilanci delle banche lo si era già capito lo scorso anno quando JP Morgan comunicò che, per un "errore", su questi strumenti aveva perso 2 miliardi di dollari, perdita col tempo lievitata a oltre 6 miliardi. R&S-Mediobanca ha calcolato che solo un 10% di perdite sui derivati sarebbe in grado di bruciare il 55,6% del patrimonio di vigilanza delle grandi banche europee e quasi il 60% di quelle americane. Cosa che non succederebbe neppure se andassero in fumo di colpo tutti i crediti dubbi. Ed è tutt’altro che necessità di protezione, visto che – a stare ai dati analizzati del 2011 – la quasi totalità di questi strumenti era detenuta dalle banche per finalità speculative: il 97% nel caso dei maggiori istituti del Vecchio continente, il 98% nel caso dei big del credito statunitensi.
Ora lo scandalo colpisce Mps, la prima banca italiana a serio rischio di essere nazionalizzata. Ma i dati di bilancio – è sempre R&S-Mediobanca a fornire la panoramica più dettagliata e completa in merito – dicono che a livello di «sistema» il rischio-derivati che gli istituti americani ed europei hanno in pancia non è minimamente confrontabile con quello delle banche italiane.
Bastano pochi dati per evidenziarlo. Guardando alle grandi banche, si scopre che l’ammontare dei contratti derivati è pari a 8,7 volte il loro patrimonio netto tangibile negli Usa, a 6,7 volte in Europa e «solo» a 2,4 volte in Italia. Qui il campione è rappresentato da Intesa Sanpaolo e da UniCredit che nel 2011 mostravano un rapporto tra derivati e patrimonio netto tangibile pari, rispettivamente, a 1,6 volte e a 3 volte. Alla fine del primo semestre 2012, mentre il multiplo a livello continentale scendeva a 6,4 volte, la media delle due banche tricolori calava a 2,2 volte (1,8 Intesa, 2,4 UniCredit). Niente a che vedere con l’esposizione di istituti come il Credit Suisse, che ancora a giugno guidava la classifica continentale con un ammontare di derivati pari a 27 volte il suo patrimonio netto tangibile, o come Deutsche Bank (21,2 volte), oppure ancora come Crédit Agricole (13,6).
Anche il raffronto rispetto al Pil fornisce le stesse indicazioni. Calcolando l’incidenza dei derivati nel portafoglio delle maggiori banche rispetto al Prodotto interno lordo dei rispettivi Paesi, l’Italia risulta in coda alla classifica del rischio: 10,7% rispetto al 254,1% della Svizzera, al 106,2% del Regno Unito, al 55,3% della Francia, al 38,4% della Germania, al 32,8% degli Usa.
La spiegazione sta nell’attività più "tradizionale" delle banche italiane. Il che non significa che, a livello di singoli istituti, non ci siano variazioni repentine difficili da giustificare. Proprio Mps, per esempio, da un anno all’altro ha più che raddoppiato il peso dei derivati rispetto ai mezzi propri, passando dal 68,5% del 2010 al 186,1% di metà 2012, balzando davanti a UniCredit, che ha ridimensionato la sua esposizione al 183,1% rispetto al 214,1% di fine 2011, e a Intesa (122,9% a giugno rispetto al 109% del 2011). Allo stesso tempo l’incidenza dei derivati sul totale dell’attivo della banca senese – a stare ai bilanci ufficiali – è aumentata dal 5% al 7,9%, comunque ancora sotto la media delle prime cinque banche italiane che è del 9,6%.
In tutta Europa si è registrato un balzo nell’utilizzo di questi strumenti per motivi opposti a quelli prudenziali che le regole di Basilea 3 volevano sollecitare. Le banche del Vecchio continente si sono messe cioè a vendere a man bassa i titoli in portafoglio per alleggerirsi di asset che assorbono capitale di vigilanza e contemporaneamente si sono buttate sui derivati, che invece sono quasi ignorati ai fini dai ratio patrimoniali. Stesso trend negli Usa. La conseguenza è che il loro ammontare nel 2011 è cresciuto del 33% per quanto riguarda le maggiori banche europee (rallentando solo nel primo semestre 2012, quando sono scesi dell’1,1%) e del 27,5% per quanto riguarda le banche statunitensi, attestandosi così al 23,9% del totale attivo delle prime e al 37,5% delle seconde. Peraltro dai bilanci Usa questo non balzerebbe all’occhio dato che i principi contabili americani consentono in ampia misura il "netting", cioè la compensazione tra derivati attivi e derivati passivi, con la conseguenza che dai dati ufficiali il rischio derivati sembrerebbe limitato al 3% dell’attivo. Va anche detto però che a contribuire alle statistiche Usa sono anche le filiali a stelle e strisce dei big del credito europeo. Il che significa che a riguardo, con le dovute eccezioni, tutto il mondo è paese.