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 2013  gennaio 23 Mercoledì calendario

UN MONDO SENZA NOI

Uno dei primi ricordi della mia infanzia (sono del 1949) è di una mattina di domenica con papà, e di lui che mi comprava una pastina nella pasticceria in via Manin, a Padova.
Mentre io mi godevo felice un bignè allo zabaione e lui si beveva un cappuccino, gli si avvicinò un signore per salutarlo. Ricordo il suo sguardo. Mio padre lo guardò dritto negli occhi, senza rispondere.
«Gli ho tolto il saluto», mi spiegò. «A lui e a tanti altri», disse, «e li ricordo proprio tutti: i delatori, le spie, i fascisti di prima e seconda ora, i vigliacchi, gli insensibili, i menefreghisti, gli egoisti e i pusillanimi. Ma ricordo anche chi mi ha salvato la vita. Se tu sei qui, se tu sei nata, se io sono vivo, è anche grazie a loro. Grazie a Bruno Saccomani, che mi offrì le chiavi di casa sua quando non avevo dove andare, grazie all’affittuario del negozio dei nonni che ci avvisò che quella notte sarebbero venuti a prenderli, e mi aiutò a farli scappare…».
Quando penso alla Shoah, penso a quello sguardo, a mio padre quel giorno. Ero piccola, ma capii benissimo. E penso al biglietto ingiallito di Saccomani che mio padre conservò religiosamente fino al giorno della sua morte, quasi per ricordare a se stesso che sono sempre esistite e sempre esisteranno anche le brave persone, e gli amici veri.
Confesso che la Shoah, nella sua interezza, è per me quasi impossibile da comprendere, immaginare. Primo Levi lo scrisse nei Sommersi e i salvati, quando ricordò che chi ne soffrì fino in fondo non rimase al mondo per raccontarla. Solo attraverso i suoi occhi riesco a filtrarla.

La «mia» Shoah, quella di molti ebrei italiani, è la «normale» storia della mia famiglia, la storia di ebrei come mio padre e mia madre, i miei nonni, i loro cugini, i loro zii. Tutta gente che riuscì a scappare in tempo e a nascondersi, e a vivere – dopo – una vita normale. Oppure la storia del nonno di un mio amico lunigianese, che finì prigioniero a Mauthausen e ci mise un anno a tornare a casa. E le storie mai narrate di tanti altri sconosciuti, tante persone qualunque che vissero in quegli anni storie di ordinaria follia oggi quasi inimmaginabili.
Nel Giorno della Memoria penso a loro: a mia madre, per esempio, che un giorno, ragazzina, alla fine dell’anno, andò a vedere
i suoi voti nel cartellone nell’androne della scuola. Era brava, studiosa, prendeva sempre ottimi voti.
Si chiamava Ascoli, quindi si cercò tra i primi nomi.
Invece non c’era.
Cercò più in basso.
Non riuscì a trovarsi.
Il suo nome lo trovò due spanne dopo quelli di tutti gli altri.
E l’anno dopo non le fu più permesso di tornare a scuola.
Non era più una bambina normale, era una bambina ebrea.
Mia madre studiò da allora in poi in una sorta di «scuola» organizzata dalla Comunità ebraica di Ancona, dove gli studenti di varie età erano tutti (in realtà non proprio: anche i figli di matrimonio misto erano considerati ebrei) e i professori, in gran parte docenti cacciati dalle rispettive università, erano ebrei anch’essi. All’esame da privatista di terza media fu rimandata in ginnastica, lei che era così brava e diligente, perché non sapeva a memoria il giuramento della giovane italiana (Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se è necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione). E, malgrado le tante ingiustizie subite, quella fu per lei la peggiore, che non dimenticò mai.
I suoi ex compagni di scuola naturalmente smisero di frequentarla. C’est la vie. E loro, i ragazzi di questa chiamiamola scuola, si fecero una strana cultura, molto approfondita in alcuni campi, molto scarsa in altri. Ma quello fu il meno, perché poi arrivarono i tedeschi e finì la scuola. Mia madre, che avrebbe molto desiderato fare il medico, soffrì tutta la vita di non essere riuscita a fare l’università. Dopo la guerra era troppo tardi. Aveva voglia di sposarsi, di tornare a una vita normale, di metter su famiglia. E lo fece, immediatamente, con invidiabile vitalità e ottimismo.

Ma torniamo indietro a quei giorni. Al momento in cui i nonni decisero di prendere le due figlie e di nascondersi, di scappare, insomma. Con una valigetta in mano partirono: erano mia madre Giuliana Ascoli e sua sorella Bice, suo padre Beppino (l’unico cognato da sempre antifascista dell’intera famiglia Russi, perché anche tra gli ebrei, all’inizio, ce n’erano molti di fascisti), mia nonna Olga Russi che nella foto di famiglia è la prima bambina a destra, mentre la bambina seduta in braccio alla nonna al centro della foto è zia Enrica, sposata Zevi, che scappò in Svizzera e finì in un campo profughi, e poi a Ginevra. Gli Ascoli trovarono invece rifugio in campagna, sotto falso nome. E se la cavarono vendendo i gioielli della nonna, cucendo grembiuli per le contadine e raccontando di essere degli sfollati cui avevano bombardato la casa. La domenica andavano a messa. Tutti tranne il nonno che invece rimaneva nascosto in un convento perché era impossibile farlo passare per ariano, per via di un certo naso un po’ arcuato che non avrebbe lasciato dubbi sulla sua appartenenza.
«Per fortuna», diceva sempre la mamma, «gli alleati arrivarono in Ancona relativamente presto, perché alla fine non avevamo più niente da vendere».
E il giorno più felice della sua vita, più felice di quello del suo matrimonio e più felice di quello della nascita delle sue figlie, fu quello in cui vide un camion con la stella di Davide: era la brigata ebraica.
Insomma, per lei andò a finir bene. Beh, quasi. Perché i membri della famiglia Russi, una grande famiglia allargata proprietaria dell’industria farmaceutica omonima che – dice la leggenda – era tra le più importanti di Italia, cercarono tutti – fratelli, sorelle, cognati e cognate – di nascondersi, ma non tutti ci riuscirono. Giacomo Russi, l’indiscusso capo dell’azienda, e suo figlio, il diciassettenne Sergio, furono arrestati e deportati.
Fu una soffiata da parte della concorrenza o fu un caso? Non lo si seppe mai.
Morirono entrambi a Auschwitz. E l’azienda Russi non tornò mai più all’antico splendore.

Claudio Salmoni, figlio di una sorella di mia nonna Olga, Vanda, e cugino preferito di mio padre Lello (cui era imparentato attraverso Vittorio Salmoni, fratello della mia nonna Salmoni) riuscì invece a sfuggire alla retata che prese il cugino Sergio e lo zio Giacomo grazie all’aiuto di una fedele domestica. Subito dopo passò il fronte per raggiungere l’Italia liberata e prese parte alla guerra partigiana.
Mentre mio padre, partigiano anche lui, fece lo stesso viaggio, ma al contrario: preoccupato per la sorte degli anziani genitori che erano rimasti soli a Padova, decise di andarli a trovare (sua madre, Gilda Salmoni, nella foto di famiglia è vestita uguale a sua sorella Rosina che morì poco dopo quella foto di «spagnola») partendo dalle montagne dell’Italia centrale per arrivare al Nord.
Subito dopo riuscì a raggiungere la Svizzera, ma, malauguratamente, quella tedesca. E lì si salvò, ma non furono certo rose e fiori. «Che stupido sono stato!», diceva sempre. «Se non mi fossi mosso dalle montagne, poco dopo sarei stato liberato: averlo saputo...».
Non poteva saperlo. Né certo poteva sapere come sarebbe finita la guerra.
Se Hitler avesse vinto, oggi non ci sarebbe più un ebreo al mondo, non un rom, un disabile, un omosessuale, e probabilmente neanche un nero.
Se Hitler avesse vinto, di certo non sarei mai nata, non sarebbero nati i miei figli né i miei nipoti. Non esisterebbe lo Stato di Israele.
E se Hitler avesse vinto, il mondo senza ebrei, senza omosessuali, senza disabili e senza rom sembrerebbe ai più del tutto normale, naturale, logico, perfetto.

In Israele il giorno della Shoah viene ricordato verso primavera, alcuni giorni prima di quello dei caduti. E non c’è famiglia che non abbia una storia, un ricordo, legati a quella memoria. Siamo un popolo di post-traumatici, dopotutto.
Poi dalla Shoah collettiva si passa a quella personale, nel giorno dei caduti.
Il nostro è Yoni Dviri, mio figlio, caduto in combattimento il 26 febbraio 1998.
L’anno scorso, non me lo aspettavo, dopo 14 anni, mi è arrivata una lettera.
Era di un ragazzo che aveva vissuto con lui gli ultimi momenti della sua vita. Diceva che Yoni era stato coraggioso, e gli aveva salvato la vita.
Mi è sembrato che Yoni volesse mandarci un saluto dall’aldilà. Già ce ne aveva mandati quattro, quattro segnali di vita e di futuro, attraverso i quattro figli dei suoi fratelli, tutti nati il 26 febbraio, il giorno della sua morte, in anni diversi (Yuvi e Maya di mia figlia Michal, Gaia e Lia di mio figlio Eyal).
E malgrado mi sia sempre detta che ringrazio Dio che i miei genitori, che lo adoravano, non abbiano mai saputo della sua morte, ho pensato che ne sarebbero stati fieri.
Mi son detta che lo Stato di Israele è uno Stato che soffre di moltissimi e gravissimi problemi, come ogni Stato del mondo e a volte molto di più, problemi per la cui soluzione, come ogni cittadina di ogni Stato combatterò fino all’ultimo giorno della mia vita; ma è anche uno Stato che non riesco a immaginare che possa non esistere, in cui è del tutto normale essere ebreo, e persino omosessuale ebreo, disabile ebreo, e anche nero.