Jodie Foster, Cathleen Shine, Marco De Martino, Cristina Gabetti, Vanity Fair 23/01/2013, 23 gennaio 2013
IL DISCORSO DI JODIE FOSTER
«Sento il bisogno di dire qualcosa che non sono mai riuscita a dichiarare pubblicamente. Sono... single. Spero di non avervi deluso, perché non sarà un discorso di coming out, questo: il mio coming out l’ho fatto mille anni fa, nell’età della pietra, nei tempi in cui una ragazzina fragile si confessava prima con gli amici più fidati, gli amici, i colleghi, e poi – sempre più orgogliosamente – con chiunque la conoscesse, anzi, con chiunque incontrasse.
Mi dicono che di questi tempi ogni persona famosa deve condividere i dettagli della propria vita privata attraverso conferenze stampa e reality show in prima serata. Ma sarebbe parecchio noioso, il mio reality: per restare in onda, dovrei pomiciare con Marion Cotillard, o sculacciare Daniel Craig. E poi, se anche voi foste stati personaggi pubblici già da bambini piccoli, se anche voi aveste dovuto lottare per avere una vita vera e onesta e normale nonostante tutto, allora apprezzereste la privacy sopra ogni cosa. Ho dato tutto di me, da quando avevo tre anni: non basta, come reality?
Non potrei mai stare qui senza rendere omaggio a uno dei più grandi amori della mia vita, la mia eroica co-genitrice, la mia ex partner in amore e sorella dell’anima per la vita, il mio confessore, compagno
di sciate e consigliere, la mia migliore amica da venti anni e per sempre, Cydney Bernard. Grazie, Cyd.
Sono così orgogliosa della nostra famiglia moderna, e i nostri fantastici figli, Charlie e Kit.
E arrivo alla più importante influenza nella mia vita, la mia straordinaria mamma, Evelyn. Mamma, lo so che sei nascosta da qualche parte dietro quegli occhi blu, e che ci sono molte cose che non capirai stasera, ma ecco l’unica che conta: ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene. E spero che, se lo dico tre volte, magicamente ti entrerà nell’anima e ti darà la gioia di sapere che hai fatto bene, nella vita. Sei una grande mamma. Ricordalo e portalo con te, quando sarai pronta per andare.
Continuerò a raccontare storie, a emozionare emozionandomi: il più bel lavoro del mondo.
Magari non apriranno in tremila sale, magari faranno così poco rumore che solo i cani se ne accorgeranno, ma continuerà a essere questa la mia scritta sul muro: Jodie Foster è stata qui.
Ci sono ancora, e voglio essere vista, e capita fino in fondo, e non essere mai più così sola. Grazie a tutti per la compagnia. Ai prossimi 50 anni».
IL SUO COMING OUT, E IL MIO –
Ho deciso che la colpa è di Mel Gibson.
La colpa, intendo, di tutto questo rumore su Jodie Foster. Che il 13 gennaio, a 50 anni, nel ricevere un Golden Globe alla carriera – e la sua carriera è la sua vita: ha iniziato a recitare a tre anni –, ha dedicato a sua madre parole così belle e commoventi da spazzare via tutto il resto del discorso. Ma a guardarla, sorridente, c’era Mel, che negli Stati Uniti è considerato un ubriacone molesto, antisemita e omofobo. Jodie lo ha ringraziato per averla «salvata», lo ha chiamato «mio amico», e dev’essere stato quello a far parlare tanto la gente.
Beh, d’accordo, c’è stata anche quell’altra cosa: il coming out, la pubblica dichiarazione di omosessualità, e al tempo stesso la pubblica dichiarazione di disprezzo verso le celebrità che fanno pubblica dichiarazione di omosessualità.
«Non sarà un discorso di coming out, questo, perché il mio coming out l’ho fatto mille anni fa, nell’età della pietra, nei tempi in cui una ragazzina fragile si confessava prima con gli amici più fidati, gli amici, i colleghi, e poi – sempre più orgogliosamente – con chiunque la conoscesse, anzi, con chiunque incontrasse». Ed è vero che chiunque sappia qualcosa di Hollywood, chiunque sia omosessuale o conosca un omosessuale, sa da anni che Jodie Foster è lesbica. Semplicemente, lei non l’aveva mai dichiarato, fino al 13 gennaio. «Mi dicono che di questi tempi ogni persona famosa deve condividere i dettagli della propria vita privata attraverso conferenze stampa e reality show in prima serata», ha detto, per prevenire le critiche che sarebbero arrivate – e che erano già arrivate in passato – dagli attivisti gay, «ma se anche voi foste stati personaggi pubblici già da bambini piccoli, se anche voi aveste dovuto lottare per avere una vita vera e onesta e normale nonostante tutto, allora apprezzereste la privacy sopra ogni cosa».
Non è stato elegante, come coming out. Jodie non è un’eroina e non è una poetessa. Semplicemente, ha detto quello che sentiva il bisogno di dire quando ha sentito il bisogno di dirlo. Suscitando l’ammirazione dei fan – «Lo sapevamo tutti che era gay, ma ora ha abbastanza fiducia in se stessa, e in noi, per dircelo» – e la rabbia di parecchi attivisti omosessuali – «Lo sapevamo tutti che era gay, poteva dircelo prima, quando avrebbe fatto la differenza». Perché quando un grande attore o atleta o politico o cantante fa coming out, da qualche parte c’è un teenager confuso e pieno di vergogna per la propria omosessualità che, improvvisamente, si sente un po’ più parte del mondo, un po’ meno disprezzato fenomeno da baraccone. «Lo sapevamo tutti che era gay», ma forse quel «tutti» non comprende una ragazza di provincia che vive nel terrore di essere smascherata ed emarginata perché si è innamorata di un’altra ragazza.
Che cosa pretendiamo da un omosessuale famoso? La domanda va riformulata: che cosa pretendiamo da una omosessuale così famosa da avere involontariamente causato il tentato assassinio del presidente degli Stati Uniti? Jodie era una studentessa diciottenne quando un suo stalker sparò a Ronald Reagan «per fare colpo su di lei». E allora, prima di parlare dei «doveri» di un omosessuale famoso, bisogna ricordare che non è semplicemente omosessuale o semplicemente famoso: è prima di tutto un essere umano, con una vita complicata e faticosa e strana come quella di ognuno di noi (nel suo caso, forse, di più).
I motivi per cui gli attivisti gay pretendono dagli attori omosessuali il coming out sono gli stessi motivi che lo sconsigliano dal punto di vista professionale. La situazione certo è cambiata, ed è cambiata proprio perché attori più coraggiosi di Jodie si sono dichiarati molto prima. Ma quanti di questi attori coraggiosi sono stati perseguitati, a diciotto anni, da un fanatico disposto a uccidere pur di attirare la loro attenzione? Non so come funziona da voi in Italia: a New York – dove i divi girano conciati come noi comuni mortali – diciamo che chi vuole davvero la privacy ce l’ha. Ma Jodie non ha avuto questa scelta: è stata sbattuta sulle prime pagine a diciotto anni, quando stava cercando di studiare al college come qualsiasi coetanea. Ha vissuto sulla sua pelle la contraddizione tra la sete di celebrità – normale per un attore – e la sete di tranquillità – normale per una vittima di stalking – e non può quindi sorprendere che si sia voluta scavare un rifugio dove ha potuto fare il suo lavoro, crescere i suoi figli, vivere con la sua donna, senza l’obbligo di parlarne.
Io non sono un personaggio famoso. Sono una scrittrice, ho avuto la fortuna di avere un certo successo, e un tempo ero sposata con un noto critico cinematografico. Quando David e io ci separammo perché mi era capitato – tardivamente e a sorpresa (anche per me) – di innamorarmi di una donna, la cosa fece rumore nel piccolo clan del giornalismo newyorkese, ma non abbastanza rumore da uscire sulla stampa. Scrissi un romanzo, Sono come lei, che in Italia è poi uscito da Mondadori, e che raccontava la storia di una donna che lascia il marito per un’altra donna. David non faceva certo mistero di quello che era successo: aveva anche lui scritto un libro, autobiografico però, su come il divorzio lo aveva spinto a fare investimenti sbagliati e a dilapidare il nostro patrimonio. Ma quando un importante programma radio invitandomi a promuovere il romanzo mi pose come condizione che parlassi anche della fine del matrimonio, dissi no. Chiamatemi vigliacca, ma io so perché lo feci: i miei figli stavano ancora affrontando il dolore della separazione, e poi il mio era solo un romanzo, non certo un manifesto del movimento per i diritti gay. Quando diversi anni più tardi scrissi per il New Yorker – e la storia fu poi pubblicata anche da Vanity Fair Italia – un racconto sul cane randagio che avevo adottato assieme a Janet, la mia compagna, fu la prima volta in cui menzionai la mia nuova omosessualità: lo feci perché era strumentale al racconto, eppure ricevetti parecchie critiche. Figurarsi quanta più attenzione è stata data ai silenzi e alle parole di Jodie Foster.
Il suo coming out, alla fine, è stato una sorpresa. Chi ci pensava più? Vivo tra New York e Los Angeles, due città tra le più aperte al mondo, appartengo a una delle categorie professionali meglio disposte verso l’omosessualità. Persino i miei figli – maschi – fanno i distaccati rispetto al fatto di avere una mamma lesbica, e i miei genitori sono stati più turbati dall’invasione dei cellulari che dalla mia «conversione» di mezza età. Ecco perché a volte dimentico, e do per scontata questa serenità. Ma l’America è un posto grande e variegato, e non sempre altrettanto aperto. E poi ricordo gli anni in cui affrontavo per la prima volta la mia omosessualità, e proprio allora seppi che Jodie Foster era gay, e accolsi la notizia con un «Wow», perché improvvisamente mi sentivo un po’ più a mio agio nella mia pelle e nel mondo. Era ancora solo un pettegolezzo, ma mi aiutò.
La sincerità è un dono che i famosi sono obbligati a farci? La privacy è un dono che noi siamo obbligati a fare loro? Interessa ancora a qualcuno sapere se una persona è gay? E sto passando per vecchia perché continuo a usare la parola «gay» invece del più politicamente corretto «LGBT», lesbiche gay bisessuali e transgender?
La risposta a tutte queste domande è: sì. Ecco perché ho deciso di scaricare la responsabilità su Mel Gibson. Così è tutto più semplice. Vuoi vedere che anche il riscaldamento globale è colpa sua?
UNA VITA PASSATA A NASCONDERSI –
Bastava la frase che non ha detto: «Sono gay». Poteva inserirla in una mail come quella in cui Anderson Cooper, anchorman Cnn, si è rivelato a un blogger. Raccontare di quando si è innamorata di una persona dello stesso sesso, come ha fatto il cantante Frank Ocean su Tumblr. Scrivere un tweet, o usare un semplice retweet come quello di Shaun T.,guru del fitness, che per confessarsi ha ripostato la foto del proprio matrimonio gay messa online da un amico. Dopotutto ora è quasi un dettaglio: l’attore Zachary Quinto si è svelato cominciando così la risposta a una domanda: «In quanto gay...».
Invece a Jodie Foster ci sono voluti 7 minuti per urlare al mondo di essere lesbica senza riuscire a dirlo veramente. Di fronte a due figli che mostra dopo averli tenuti nascosti per anni, seduti di fianco a un attore emarginato dalla Hollywood politicamente corretta perché antisemita e omofobo: Mel Gibson, che secondo i pettegolezzi potrebbe essere il loro vero padre. Il suo è stato un tweet lungo seimila caratteri che sembrava venire da un’era diversa delle celebrity, un passato in cui l’identità sessuale era ancora una questione gigantesca abbastanza da non potere essere affidata allo status su Facebook.
È complicato, per Jodie. «Il mio coming out l’ho fatto mille anni fa», ma confessare di aver già confessato non è abbastanza per gli attivisti gay come Andrew Sullivan: «Aria fritta. Ha aspettato che altri molto meno potenti facessero il sacrificio che ha reso possibile il suo coming out». E Michelangelo Signorile, che da sempre cerca di smascherarla: «Sarebbe stato più importante 20, 10, anche solo 5 anni fa».
Ci vuole Frank Bruni, primo editorialista gay del New York Times, per ricordare che la vera rivelazione non riguarda la sessualità, ma il lato umano di una diva che ha passato la vita a nascondersi: «Proprio perché era fatto di “ho paura ma lo voglio dire”, il coming out è stato potente. Ha chiarito quanto difficile fosse il percorso. È stata la più vera testimonianza della paura, della solitudine, della speranza di chi non ritiene di dovere al mondo una risposta ma sente di dovere a se stessa una qualche verità».
Sente di dover ringraziare, per esempio, Cydney Bernard, la produttrice che è legalmente l’altra madre dei suoi figli Charles e Kit, nati con inseminazione assistita nel 1998 e nel 2001. Sapranno chi è il vero padre a 21 anni, ma prima che cominciassero a circolare i rumors su Mel Gibson il nome che tutti davano per certo era quello di Randy Stone, regista gay morto nel 2007. La madre di Randy dice che il figlio trattava i ragazzi come fossero suoi, ma che gli accordi lo vincolavano al segreto.
Jodie e Cydney si sono conosciute nel 1993 sul set di Sommersby, e sono state assieme per 15 anni indossando identici anelli Tiffany Eternity, portando i ragazzi al parco su decappottabili Bmw dello stesso colore, praticando yoga nella villa dove vivevano senza domestici per amore di privacy. Poi Jodie l’ha lasciata per la più giovane Cynthia. Ma ora che è di nuovo single continua a gestire la famiglia con l’ex partner, che l’aiuta anche a prendersi cura di sua mamma Evelyn, 84 anni, malata di demenza.
Non dev’essere stato facile per la diva dire «mamma, ti voglio bene». E non c’entra quello che blatera Buddy, il fratello in prigione, insinuando malignamente un «fattore genetico»: cioè, che a causare la separazione dal padre Lucius fu la relazione tra Evelyn e Josephine, la «zia» che poi crebbe Jodie. Piuttosto, ha lasciato il segno il modo in cui Evelyn ha sfruttato i figli.
Il primo spot Coppertone arrivò quando Jodie aveva 3 anni, a 8 manteneva la famiglia: «Quando guadagni il pane per tutti, piangere non si può», disse una volta per spiegare come questa condizione le avesse plasmato il carattere. «La debolezza mi dà fastidio, se vedo un uccello ferito mi viene voglia di dargli un calcio». Debolezza nella sua infanzia era mangiarsi le unghie: c’era il rischio che gli ispettori del lavoro lo interpretassero come segno di stress, e impedissero all’attrice bambina di lavorare. Debolezza sarebbe stato rifiutare il personaggio che ha cambiato la sua vita, quella della baby prostituta in Taxi Driver. Aveva 14 anni: «Certo che può reggere la parte», dissero gli psicologi del lavoro, colpiti dalla sua durezza.
Ma quel personaggio scatenò gli stalker e 5 anni dopo John Hinckley, pur di attirare la sua attenzione, sparò al presidente Ronald Reagan davanti al Washington Hilton. Era il 30 marzo 1981, la notizia la raggiunse a Yale, dove si era rifugiata alla ricerca di una vita reale al di fuori di Hollywood (e dove si sarebbe laureata in Letteratura): «Non riuscivo a pensare al presidente. Piangevo per me stessa, l’involontaria vittima, quella che alla fine avrebbe pagato».
Le imposero guardie del corpo nel campus dove era andata per essere libera, e una settimana dopo decise di andare comunque sul palco per la recita scolastica che aveva aiutato a mettere in scena. Per due sere notò la persona che la guardava seduto sempre nella stessa sedia. Si chiamava Edward Richardson, e quando lo arrestarono armato disse che avrebbe voluto ammazzare Jodie ma, vedendola così bella sul palco, aveva invece deciso di mettere bombe nel suo dormitorio. Il dormitorio venne evacuato, e qualcosa si svuotò anche dentro Jodie: «Ogni volta che qualcuno puntava la macchina fotografica pensavo che volesse uccidermi».
Da allora ha sempre interpretato lo stesso ruolo al cinema e nella vita, quello della donna braccata. Sarah Tobias stuprata in Sotto accusa, l’agente dell’Fbi Clarice Starling nel Silenzio degli innocenti, la signora Meg Altman in Panic Room non sono poi così diverse da come lei apparve a inizio degli anni Novanta sui poster che tappezzavano i muri di New York. «Jodie Foster: gay». Come una taglia.
VESTI VIOLA? TI PIACCIANO LE RAGAZZE –
Ottobre 1981. Sono a Yale da un mese, eccitata da mille stimoli, ancora un po’ nostalgica per la vita appena lasciata. Appena sveglia, apro l’anta del mio piccolo armadio, nella piccola stanza a Durfee, sull’Old Campus, dove vivono gli studenti del primo anno, e mi lascio attrarre dal viola della tuta di camoscio che associo ai momenti speciali. In un lampo sono vestita e mi tuffo nella giornata di sole. L’aria è croccante, gli alberi infiammati dalla muta autunnale. Per strada, a sorridermi non è solo Madre Natura addobbata a festa, ma anche gli studenti. Ricambio. Mi sento accolta. L’umore sale. Poi, sale la consapevolezza che a guardarmi sono soprattutto le ragazze. Agli incroci, scambio parole di circostanza con le più estroverse che mi salutano, poi taglio corto, per non arrivare tardi alla lezione di Computer Science. In aula incontro Jodie, conosciuta pochi giorni prima nella stanza di un’amica londinese. Ci sediamo vicine.
«Ehi, ti piace il viola?».
«Sì, ma mi piace soprattutto questa tuta!».
«Ah, non l’hai indossata oggi per il colore…».
«Beh, mi piace il viola…».
Jodie strizza gli occhi, birichina. Capisce che non capisco. E mi spiega: indossare il viola di giovedì è un codice per le ragazze interessate a stringere amicizie particolari. Più viola di così non potrei essere, inoltre ho i capelli cortissimi! Le racconto dei calorosi saluti. Ridiamo. La sua franchezza mi conquista.
Sono tempi difficili per lei. Non parlarle di Hinckley – l’uomo che ha sparato al Presidente per lei, che ha violato la sua intimità – è il modo migliore per proteggerla. E non si parla mai della sua sessualità, anche se una volta mi scappa un commento sui graffiti un po’ hard che tatuano le pareti del bagno femminile al Cross Campus Library, dove andiamo a studiare. Agli slogan Jodie preferisce la discrezione, ma con lo sguardo mostra di sapere che noi sappiamo.
Il nostro ultimo incontro risale al matrimonio di un compagno di università, che si è sposato a Pietrasanta. Fuori dal ristorante pullulavano i cronisti. Tra un piatto e l’altro Jodie si è alzata, è uscita, e per cinque minuti si è concessa ai fotografi. Poi, in italiano perfetto, ha detto: «Grazie, adesso basta». Ed è rientrata, lasciando fuori l’attrice e tornando la ragazza di sempre.