Carlotta Sisti, Gioia 22/1/2013, 22 gennaio 2013
NICCOLÒ FABI – LA FELICITÀ È ADESSO
È SOLO sul palco, Niccolò Fabi. Un fascio morbido di luce lo abbraccia, mentre lui libera la voce sulle note di Ecco, brano che dà il titolo al suo ultimo album. Gli occhi chiusi, le gambe che scalciano l’aria: così finisce il soundcheck della data zero o, come ama chiamarla, "la grande prova generale", del tour che, per un mese, lo porterà in tutta Italia.
Parte da qui, Montecatini Terme, il suo nuovo viaggio e l’atmosfera è lieve. Ad agosto Niccolò ha avuto un maschietto dalla sua compagna Shirin Amini, Kim: un lieto evento dopo la dolorosa scomparsa, a due anni, della prima figlia, Olivia. Volano battute con i musicisti e amici che lo accompagnano da tempo, i piatti si riempiono e si svuotano in un lampo, durante un pranzo tardivo che riunisce tutto il gruppo. Niccolò gira di tavolo in tavolo, chiacchiera o mette a punto gli ultimi dettagli dello spettacolo, il viso è un po’ affaticato, ma facile al sorriso. «Iniziamo?», chiede stropicciandosi gli occhi e lasciandosi cadere su una poltrona.
Iniziamo. Stanco, ma soddisfatto?
Si vede, vero? C’è un po’ di stanchezza, sì, ma è bella, figlia dell’impegno e dell’entusiasmo, che a loro volta nascono dalla consapevolezza della fortuna di poter fare, ogni giorno, ciò che si ama. La soddisfazione, per ora, è solo tra noi (indica il gruppo, ormai sparpagliato nella hall dell’hotel, ndr); da tre giorni siamo in una bolla avulsa dalla realtà, che è la fase delle prove. Spero che questo personale godimento diventi condiviso con tutti quelli che verranno a sentirmi.
Mariangela Melato, in una delle sue ultime interviste, ha detto che chi ha talento ha anche il dovere di non fare cose banali. Avverte questo compito?
(Resta in silenzio a lungo, le mani affondate dentro la cuffia, mentre riflette, ndr)
Sì, condivido. Il talento è anche una responsabilità, perché ci è dato insieme al nostro patrimonio genetico e, visto che non l’abbiamo pagato, dobbiamo meritarcelo. Se hai a disposizione 10 frecce al tuo arco, non usarle tutte sarebbe un peccato e offensivo verso chi ne ha solo una. È un dovere, la parola è azzeccatissima, per chi fa arte, spingersi sempre oltre e assumere il ruolo di quello che sale sull’albero più alto della nave per gridare agli altri: «Terra»! Correndo pure il rischio che una folata di vento improvvisa lo faccia cadere in mare.
Ora, come in tutto Ecco, fa diventare i concetti immagini. Le piace che il suo disco non sia solo da ascoltare, ma anche da guardare?
Certo, è quello che la mia scrittura dovrebbe ispirare. Sa, quando si ha poca confidenza con la propria intimità si ha anche il bisogno di guardarsi dentro e di descrivere i grovigli un po’ adolescenziali in cui si inciampa. Avendo, con il tempo, stretto il cerchio intorno a me stesso, non mi accontento di dire «Ammazza, come sto male», ma parlo del riflesso, dell’ombra che ai miei occhi quel sentimento assume nella realtà. E penso che, se canto di un’altalena vuota, di lenzuola sui balconi o di vasche da bagno nei campi, le mie sensazioni arrivino ugualmente. Ormai trovo molto più interessante guardare fuori da me stesso, piuttosto che dentro.
È allergico all’egocentrismo o sbaglio?
Mi spaventa l’aggressività dell’affermazione di sé a tutti costi. Nella ripetizione ossessiva della parola "io" vedo insicurezza e paura degli altri. Chi è sereno s’avvicina agli altri toccandoli, abbracciandoli, guardandoli negli occhi. Chi ha paura, invece, vedrà di fronte a sé sempre un avversario da sconfiggere. Che sia l’amante che non considera il punto di vista dell’innamorato, o un artista che vuole stare sempre al centro dell’attenzione o, molto peggio, il politico che guarda solo al suo vantaggio e non al bene comune, sempre di egocentrismo si tratta. Cambia la gravita delle conseguenze che, nell’ultimo caso, sono davvero catastrofiche.
Si riferisce a qualcuno in particolare? Mi riferisco a tutti quegli insaziabili finanzieri, industriali, politicanti che hanno potere e ricchezza a scapito degli altri. È evidente che di esempi, purtroppo, ce ne sono parecchi, no? Il comune denominatore, comunque, è quel primo pronome personale che diventa la divinità assoluta.
Nei testi parla tanto al passato e del passato. Ha dei momenti di nostalgia?
Per nulla. Non ho nostalgia dei cosiddetti bei tempi che furono, anzi sono convinto che ogni periodo abbia la sua bellezza. Semmai sono un malinconico, per indole e per estetica.
Mi racconta la sua malinconia?
È la sensazione della precarietà di ogni cosa, il contrasto tra l’accettazione delle cose, anche le più brutte, e l’incomprensibilità che permane; è la consapevolezza della circolarità che vuole sempre un inizio e una fine. La malinconia è un colore, che a volte prevale e altre volte è più soffuso, ma di sicuro fa parte del mio pigmento. Non ho alcuna nostalgia, invece, della mia giovinezza perché sto meglio ora rispetto a quando ero un ventenne.
Si sente dire di frequente. Perché?
Oggi so godere meglio delle cose. Quindici anni fa, quando salivo su un palcoscenico, ero molto meno consapevole della bellezza del momento. Ero insicuro, tormentato dai dubbi, il piacere era accartocciato in un angolo, mentre ora riesce a spalancarsi e ad avvolgermi. Poi se guardo alla situazione generale... L’economia è il centro di tutto, la politica ne è succube mentre, per esempio, negli anni Settanta c’era la sensazione che fosse il contrario e che i valori avessero un peso, un ruolo fondamentale.
Con il brano Elementare ha rivalutato un concetto un po’ snobbato.
«Elementare, come un bacio in una favola / Elementare, come il sonno la domenica». Le cose elementari sono piene di poetica e, se sono snobbate, è perché, purtroppo, le persone si annoiano. Si annoiano della normalità e dell’eccezionalità, mentre io penso che la chiave di una vita appagante sia trovare il modo di rendere dinamico il quotidiano. È nel giorno dopo giorno che devi dimostrare di essere forte, senza cercare sempre l’elemento straordinario, che tanto non ti risolve proprio nulla.
Ogni tanto l’idea di fare altro, oltre alla musica, la stuzzica?
Sì, mi capita. Mi vedrei bene come regista, a dirigere quelle immagini che oggi racconto nelle canzoni.
Perché, secondo lei, quando la criticano, usano spesso la definizione di "radical chic"?
Intanto perché è una definizione modaiola, di cui pochi sanno il significato. In teoria starebbe a indicare una persona abbiente che porta avanti il punto di vista delle classi meno agiate. In questo quadro semplicistico io sono perfettamente un radical chic: sono nato ai Parioli, il che non è una colpa, ma un dato di fatto, da una famiglia mediamente benestante e non ho certo l’estetica del proletario.
Quindi?
Io non ho mai raccontate cose diverse da quelle che ho vissuto e non no mai finto di essere uno dei centri sociali. È un fatto di pura antipatia, che non si sa come argomentare e basato su una scheda anagrafica, non sul gusto, né su un giudizio riferito alle capacità. Se uno viene a dirmi: «Guarda, il tuo ultimo disco mi fa proprio schifo» gli stringo la mano, ma dire che quello che faccio è radical chic è senza senso.
Intanto sulla sua pagina Facebook ha condiviso la proclamazione di Ecco come disco più bello del 2012, promettendo di tornare «modesto con il nuovo anno». Ha già finito di gongolarsi?
Mica tanto, perché i riscontri continuano a farmi proprio gongolare. E, spero, sia motivo di gratificazione anche per chi mi segue da 7 dischi e oltre 80 canzoni. Il fatto che il mio momento, inteso anche come numero di biglietti venduti, di posto in classifica dell’album, di sold out dei concerti, arrivi a 44 anni (e non a 20, per una canzone fortunata) è una soddisfazione più grande e, come dicevo, di cui ho maggiore consapevolezza. È un po’ il mio momento e me ne accorgo: il successo è una palla che gira, una volta tocca a quello, una volta a quell’altro e ora finalmente è toccata a me. Dice che mi sto "ad allarga"?
(Un’ultima risata e poi scappa a riposarsi, prima di tornare sul palcoscenico e rompere il velo che separa la sua prova generale dal pubblico. Che questa sera, ma lui ancora non lo sa, lo accompagnerà cantando per più di due ore, ndr).
Buona la prima, Niccolò.