Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 19 Sabato calendario

DAL SOCIALISMO ALLE ANDE. ECCO IL DOPO CHÁVEZ


LA VIGILIA DI NATALE Evo Morales, il leader boliviano e bolivarista, era all’Avana. Secondo fonti diplomatiche di La Paz, Morales sarebbe stato l’unico politico sudamericano ammesso al capezzale di Hugo Chávez, rioperato dai chirurghi di Fidel Castro; anzi, sarebbe stato convocato dallo stesso presidente venezuelano - ancora abbastanza lucido - per comunicazioni top secret. Un segnale chiaro che l’indio "cocalero", l’ex sindacalista campesino rieletto nel 2009 dai boliviani con il 64 per cento dei voti e da sempre il più fedele e allineato discepolo del radicalismo chavista, raccoglierà l’eredità ideologica del controverso capataz di Caracas. Certo Morales ha dato prova, a colpi di nazionalizzazioni, proclami antiamericani, esorcismi contro il demone Coca-Cola e robuste modifiche alla Costituzione, di essere un perfetto "socialista del Ventunesimo secolo", cioè un degno interprete della rivoluzione che secondo Chávez «darà al mondo una nuova architettura morale», basata sulla solidarietà, la guerra alla povertà, la centralità dello Stato (e una buona dose di repressione poliziesca delle opposizioni).
Ma non basta per diventare il nuovo Chávez, ci dice Eduardo Rodriguez Veltzé, ex presidente della Corte Suprema boliviana e presidente della Repubblica a interim prima della clamorosa vittoria di Morales nel 2006. «La sua leadership è ancora forte in Bolivia, tuttavia dopo Chávez nella regione potrebbero cambiare molte cose. Perché ci sarà anche un "dopo-Castro" a Cuba e perché Morales diventerà meno radicale e più realista, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti; non ha il carattere né l’interesse per sostenere un ruolo politico barricadero e ormai anacronistico: saprà usare l’eredità ideologica di Chávez per fare buoni affari con l’unica vera nuova potenza regionale, il Brasile» spiega a Io donna il professor Rodriguez, 56 anni, oggi direttore della facoltà di Diritto all’Università cattolica San Pablo di La Paz. Insomma par di capire che Morales non ispirerà mai un film di Oliver Stone.
La Bolivia, con una crescita media annua del 5 per cento, conferma il dinamismo che negli ultimi dieci anni ha risvegliato l’America Latina da un lungo oblio e dalla marginalità internazionale, riposizionandola nella modernità e nei circuiti della globalizzazione. Un Paese grande quanto la Francia e la Spagna messi insieme, arroccato sugli altopiani andini, nel cuore indio del continente, tra Brasile, Argentina, Cile, Perù e Paraguay; dieci milioni di abitanti con uno dei redditi procapite più bassi a Sud degli Usa, intorno ai duemila dollari, ma solo dieci anni fa erano la metà. L’Economist, che non ha certo Morales nel suo pantheon, ammette che la Bolivia ha i conti a posto e che l’economia è destinata a crescere. Anche se l’ex sindacalista dei coltivatori di coca non invoglia certo gli investimenti stranieri: l’ultima nazionalizzazione è stata ordinata a Capodanno ai danni della compagnia spagnola Iberdrola che gestiva la distribuzione dell’energia elettrica a La Paz e nell’area mineraria di Oruro. Pochi mesi prima era toccato alla società di trasporti Red Eléctrica, anch’essa spagnola e non ancora indennizzata. Quattro imprese di produzione dell’elettricità straniere espropriate nel 2010; nel 2008 la telefonia, compresa l’italiana Entel, controllata da Telecom; tra il 2006 e il 2008 tutte le aziende degli idrocarburi. Perché la Bolivia, non dimentichiamolo, è il secondo Paese sudamericano per riserve di gas e possiede il 70 per cento dei giacimenti mondiali di litio (essenziale per le batterie di nuova generazione).
Morales ha però fatto notizia soprattutto trasformando la coca da foglia del peccato in simbolo patriottico, bandiera culturale e strumento di emancipazione sociale degli indios, specialmente quelli Aymara, il gruppo etnico da cui proviene. L’operazione "okulliku" (che vuol dire masticare coca) e la depenalizzazione dell’uso delle foglie da parte dei contadini andini, per i quali da millenni è l’unico modo per sostenersi a quelle altitudini, ha comportato anche l’espansione spropositata delle coltivazioni: «Su 30 mila ettari» dice l’ex presidente Rodriguez Veltzé «oltre un terzo sono a uso illecito e nelle mani di trafficanti stranieri». Perché una cosa è la coca e altra la cocaina, che dalla Bolivia, attraverso il Brasile, prende la via dell’Europa. La faccenda rischia di scappare di mano e Morales ora ha cambiato bandiera, cioè sementi: grandi incentivi alla quinoa, cereale dalle mille proprietà e a prova di cambiamento climatico che dalle Ande sta conquistando il mondo. Tanto che il presidente-contadino è stato nominato dalla Fao "ambasciatore della quinoa". Ma in patria sta perdendo il sostegno della sua gente, gli indios. Oltre alle proteste per la sospensione dei sussidi sul carburante, Morales è sotto attacco per il progetto di costruzione di una superstrada che dal Brasile, quindi dall’Atlantico, dovrebbe attraversare la Bolivia per arrivare al Pacifico. E squarciare una foresta pluviale, parco nazionale e terra sacra alle popolazioni indigene.
«So che Morales» dice il suo predecessore «ha chiesto un consiglio a Chávez e poi ha dichiarato "chi è contro la strada è contro la rivoluzione". Perché ci sono molti modi di chiamare gli affari».