Valeria Fraschetti, D, la Repubblica 19/01/2013, 19 gennaio 2013
CHIAMAMI TOLLYWOOD [Né
Hollywood né Bollywood. Gli studios più grandi - e più prolifici - del mondo sono sì in India, ma ad Hyderabad. Benvenuti a Ramoji Film City] –
L’insegna svetta imponente sul pendio di una collina. Come a Hollywood. Ma questa non è l’America e le lettere che annunciano “Ramoji Film City” sono sostenute da posticce statue egizie. I loro caratteri ciclopici sono un primo assaggio della specialità di casa: la smania di grandezza. Li superiamo seduti su un pulmino per visitatori “V.I.P.”, un acronimo che promette il benefit dell’aria condizionata a bordo e si guadagna pagando il biglietto d’ingresso il doppio del prezzo comune, 27 euro. Cioè quasi un quarto dello stipendio medio di una cuoca o un manovale in questa parte di mondo. Ma chi viene qui non bada a spese: basta uno sguardo sulle legioni di famiglie arrivate di buonora per capire che è una giornata speciale. Si presentano agghindate nei loro abiti migliori, come fosse la domenica di Pasqua: invece è la loro giornata nella Disneyland indiana del cinema. Ci si aspetterebbe di trovarla a Bombay, il regno di Bollywood, il cinema indiano per antonomasia. Ma siamo alla periferia di Hyderabad, la capitale del meridionale Andra Pradesh, che oggi ospita una “Hitech City” con gli uffici di colossi come Google e Facebook, e che da decenni è la patria delle produzioni cinematografiche in lingua telegu, la seconda più parlata in India. Eccoci a Tollywood, un’industria che raggiunge picchi di melodramma più esasperati di quelli bollywoodiani e vanta vari primati certificati dal World Guiness Record: dal produttore più prolifico (130 film) al cantante in play-back più onnipresente (32mila). Quello ottenuto da Ramoji Film City va alla sua enormità: una fabbrica dei sogni da 674 ettari, 47 sound-stage, decine di set permanenti, compreso una finta stazione ferroviaria, che in 18 anni hanno ospitato le riprese di quasi 2000 film. Quel che serve, insomma, per aggiudicarsi il titolo di “studio cinematografico più grande al mondo”. Per avere un’idea: gli Universal Studios vi entrerebbero quattro volte.
Il risultato per chi arriva è l’impressione di aver ricevuto in dono qualcosa di vicino all’ubiquità. Si passa in un batter di ciglia dai “Sayonara Gardens” giapponesi all’“Arizona Cactus Garden” per le scene western, alla “Sun Fountain” che starebbe a pennello in un film su Luigi XIV. E se Bombay e Agra, la città del Taj Mahal, simbolo dell’India, distano nella realtà 1200 chilometri, “qui sono a due passi”, come proclama con entusiasmo la nostra guida indicando una quinta che mostra i monumenti principali delle due città l’uno accanto all’altro. Intanto, l’impossibilità di trovare un solo rifiuto a terra – circostanza quasi impossibile in India - aumenta la sensazione di viaggiare dentro un’illusione. Sfiliamo di fronte ad abitazioni per ogni scenografia. Basta chiedere: capanne rurali, case del Kerala, magioni coloniali, villette californiane. C’è persino la “flexible house”: quattro case in una, uno stile per lato. Lo stesso concetto che offre più avanti un set che fa al contempo da ospedale, chiesa, stazione degli autobus e aeroporto. Una visita a Ramoji Film City è per molti indiani quanto di più vicino vi sia nella loro vita a un viaggio all’estero. «Non ero mai salito su un aereo», racconta Sundar Panda, maestro in pensione dell’Orissa, camicia a scacchi sopra un abito tradizionale drappeggiato in vita, che sfodera un sorriso estatico mentre si fa immortalare a bordo di un Boeing senza motore né pilota. Ha saputo della Film City dalla tv, e con tre parenti s’è accollato 20 ore di autobus per venire qui. Più o meno le stesse percorse da due novelli sposini della campagna del Kerala che, dopo un pranzo al ristorante Super Star, si dirigono con timida euforia allo stunt-show. Domani saranno già a casa: questa giornata è la loro luna di miele, un sogno nel sogno. Perché niente è più elettrizzante di un parco tematico sul cinema per un popolo smodatamente cinefilo come quello indiano, un eden, per prendere in prestito le parole del depliant, alle cui porte bussano 1,5 milioni di persone l’anno, parte di quella robusta classe media affamata di consumi e svaghi che sta benedicendo il turismo domestico con una crescita a due cifre.
Il creatore degli studios, profano ma religiosamente riverito dai suoi settemila dipendenti, è il settantaseienne Ramoji Rao. Che in realtà ha più amore per le notizie che per i film, come testimoniano anche i 18 televisori di fronte alla sua scrivania, sintonizzati su altrettanti canali. Dodici - in otto lingue diverse e parte del network ETV - sono di sua proprietà. Come lo sono anche Eenadu, il primo quotidiano della regione per copie vendute (1,6 milioni di copie), una finanziaria, un’azienda di salse piccanti. A guardare il suo impero, specie se dalla finestra larga sei metri del suo vasto, lussuoso ufficio, si stenta a credere che il padre fosse un contadino. «La mia prima impresa è stata con i media e in onore delle mie origini ho anche fondato una rivista sull’agricoltura», racconta Rao, che ama vestire in pantaloni e camicia bianchi, la tenuta tipica dei notabili indiani. Dai giornali ha sconfinato nel cinema, producendo qualche film prima di farne produrre ad altri in casa propria. «Mi piace sognare, e far sognare», chiarisce prima di passare alle cifre: «Solo nella giornata di oggi ospitiamo le riprese di otto produzioni; in tutto il 2012 sono state quasi 300».
Dal 1996 a Ramoji Film City si entra con la sceneggiatura e si esce con il film pronto per essere proiettato. È una “one-stop production facility”, dove ormai confluiscono le produzioni di tutte le industrie cinematografiche regionali indiane. Per quelle occidentali c’è pure il vantaggio del risparmio: del 30 per cento almeno. Tanto che sette lungometraggi americani hanno usufruito degli studios. Esistono sale di doppiaggio digitali, indispensabili in una nazione con 23 lingue ufficiali, laboratori artigiani dove si producono elementi scenografici di ogni sorta e materiale. Da qui è stata forgiata anche la dozzina di case rurali create per “Himmatwala”, il remake di un cult bollywoodiano di cui durante la nostra visita stanno girando la scena clou della lotta tra il protagonista-regista, Ajay Devgn, e la tigre, interpretata da un rudimentale fantoccio spelacchiato che necessiterà di miracoli in post-produzione. Su un taccuino scritto meticolosamente in cinque colori e squadernato sulla sua ampia scrivania in mogano Rao registra le sue idee, un connubio di kitsch ingenuo e visionaria imitazione. Che in futuro si materializzerà anche in “Temples of India”, il più ambizioso dei progetti in cantiere: ricreare i più noti templi del Paese tal quali, in scala 1:1. Un’attrazione ludico-religiosa con cui Ramoji Film City spera di scippare al Taj Mahal la vetta delle mete più visitate dell’India (3 milioni di persone l’anno). «Sarà più conveniente per i pellegrini: più luoghi di culto in un solo posto», spiega il chairman, il presidente, come tutti lo chiamano. E se gli si fa notare che i fedeli potrebbero vedere come sacrileghi, più che sacri, i suoi santuari, lui ribatte da navigato uomo d’affari: «Tutti i templi sono creazioni umane».