Alessandro Barbera, La Stampa 23/1/2013, 23 gennaio 2013
IL FEDERALISMO ALL’ITALIANA E QUELLA SPESA CHE NON CALA
[In un libro la storia di 4 anni passati (quasi) invano] –
Riforma è una parola che suona bene. È rotonda, chiara, rimanda ad un futuro carico di auspici, sta sulla bocca di tutti. Basta accendere la televisione: probabilmente in questo momento qualche candidato vi sta proponendo una riforma della scuola, della sanità, l’ennesima riforma delle pensioni, dei sussidi alle imprese o al fotovoltaico. Il libro («Federalismo all’Italiana», da oggi in libreria con Marsilio) è dunque sconsigliato ad ottimisti e deboli di cuore. Perché le riforme in Italia sono spesso - troppo spesso - il frutto amaro di mode temporanee e grandi equivoci. Quella federalista del 2001, approvata a colpi di maggioranza da un centrosinistra boccheggiante e a caccia del voto leghista, doveva rispondere alla voglia di buongoverno dopo il dramma di Tangentopoli, all’idea che se il sindaco ha più poteri, lo Stato è più vicino, umano, leggero. E invece da quella riforma é nato un mostro a sette teste, quelle degli enti (dall’Europa alle sovrintendenze) cui puoi essere costretto a rivolgerti se per qualche motivo occorre tagliare un albero.
Luca Antonini parla di una «grande incompiuta». L’impressione che se ne ricava dai racconti dell’autore, da quattro anni presidente della Commissione di attuazione del federalismo fiscale, è che quello sia stato il principio del caos. Come definire altrimenti il fatto che la Sicilia (la più autonoma delle Regioni) possa permettersi di pagare per il solo personale 1,7 miliardi all’anno contro i 200 milioni della Lombardia e più di quanto spendono tutte le altre Regioni messe insieme? E che dire dei 500 milioni di scarto fra i bilanci della Regione Lazio sui trasferimenti ai Comuni e la somma dei singoli bilanci? O dei poteri affidati a cascata (dallo Stato giù giù fino alle aziende pubbliche) che hanno prodotto la più inefficiente spesa per trasporti d’Europa? Invece di semplificare, il federalismo ha complicato. Invece di accorciare la catena delle decisioni, il federalismo ha moltiplicato. Oggi, anche in un piccolo comune è possibile imbattersi in un PRUSST (programma di riqualificazione urbana per lo sviluppo sostenibile del territorio), un PTCP (piano territoriale di coordinamento provinciale), un PUTT (piano urbanistico territoriale tematico), un PEEP (piano per l’edilizia economica popolare) o, se va bene, in un PIP (piano per gli insediamenti produttivi) o un PP (piano particolareggiato).
Antonini parla di un’«incompiuta» non per banale ottimismo, ma perché effettivamente - ne va dato atto all’ultimo governo Berlusconi - i decreti attuativi del federalismo fiscale a questo servivano: a tentare di rimettere ordine al caos e a ridurre la mole di spesa (più della metà del totale) a disposizione degli enti locali. Qualche risultato lo si è raggiunto, anche se nell’ultimo anno il governo è riuscito ad aggiungere caos al caos. Antonini cita il caso dei decreti sui costi della politica: dovevano abolire i consigli provinciali (risparmio 120 milioni), hanno invece spazzato via le regole antidissesto che avrebbero punito i sindaci spendaccioni. E così in caso di bisogno Napoli (disavanzo accertato 850 milioni) e altri 27 comuni sull’orlo del baratro hanno a disposizione quasi 300 euro a cittadino per tappare le falle di bilancio. Il già ribattezzato «fondo De Magistris», vale due miliardi. Per finanziarlo il governo ha sottratto 500 milioni alle risorse per il pagamento degli arretrati della pubblica amministrazione. Parafrasando Monti, il lavoro non è per nulla finito.