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 2013  gennaio 21 Lunedì calendario

LA RIVOLUZIONE TREMONTI CHE CONSEGNÒ I SINDACI AGLI ISTITUTI D’AFFARI

Chi è senza derivati scagli la prima pietra. Sulle responsabilità della finanza tossica la politica gioca a rimpiattino: ha cominciato Prodi, sostiene l’ex ministro Tremonti. Colpa della finanza creativa, accusa la sinistra. Spulciando gli archivi si può dire che hanno ragione entrambi, sebbene le responsabilità siano diverse. Gli strumenti finanziari arrivano nei bilanci di enti pubblici grazie a due finanziarie: quella del 1997 e quella del 2002. La prima, governo Prodi, autorizza “Cassa depositi e Prestiti ed enti pubblici economici” all’uso di “operazioni di swap per ristrutturare il debito pubblico”. La seconda, governo Berlusconi, autorizza “comuni, provincie e regioni” a “’emettere titoli obbligazionari e contrarre mutui bancari con rimborso del capitale in unica soluzione alla scadenza previa costituzione di un fondo di ammortamento del debito o previa conclusione di swap”.
CERTO, UNA COSA è mettere un banchiere di fronte al direttore della Cassa Depositi e Prestiti (ministro Ciampi), un’altra è metterlo di fronte al sindaco di Polino (ministro Tremonti). Quando si aprono i cancelli della finanza locale ai derivati, i toni della stampa sono trionfalistici e Tremonti non fa fatica ad attribuirsene la regia. Prezioso il lancio di agenzia Ansa del 29 settembre 2001 che annuncia lo sbarco dei “sofisticati strumenti” nei comuni: si tratta “strumenti finanziari di garanzia” che permettono “l’estinzione anticipata delle passività” attraverso “condizioni di rifinanziamento”. L’operazione consiste nel trasformare i mutui degli enti in emissioni di bond con derivati sui tassi. Il potenziale affare – spiega l’Ansa - è di oltre 300 mila miliardi di lire: “quindi di dimensioni sufficienti per attrarre l’attenzione degli investitori istituzionali”. Per inciso, gli investitori istituzionali dell’epoca si chiamano Unicredit, Ubs, Dexia Crediop, Merrill Lynch, Deutsche Bank, Nomura, Barklays.
I meriti (quindi le responsabilità, ndr) sono riportati nero su bianco: “Sarà il dicastero guidato da Giulio Tremonti a coordinare l’accesso al mercato dei capitali degli enti locali”. In soldoni, quello racconta l’agenzia è che gli enti possono cancellare parte dei debiti dai propri bilanci per rinviarli al futuro a condizioni più convenienti (offerte dalle banche).
Un successo prevedibile visto che la stessa finanziaria introduce un tetto di spesa agli enti locali pari al 4,5% rispetto a quello del 2000, il cosiddetto patto di stabilità. Togliere dalle spese in bilancio gli interessi sui mutui diventa un’occasione irrinunciabile per molti comuni.
MA IL FUTURO prima o poi arriva, e si scopre che quelle “condizioni di rifinanziamento” non erano affatto più convenienti. Nelle pieghe delle relazioni della Banca d’Italia guidata da Fazio compaiono preoccupazioni. La prima foto a colori la scatta il Sole24Ore nel 2005: ci sono 900 enti locali che hanno sottoscritto derivati per 12 miliardi di euro. In testa le regioni Piemonte (1,8 miliardi), Campania (1,7 miliardi) e Lazio (1,3 miliardi). Ma non mancano enti più piccoli. La Corte dei conti inizia a porsi seri dubbi sulle competenze finanziarie di comuni come Borgo Priolo, Marsala, Itri o Pozzuoli che avrebbero sottoscritto “opzioni digitali , upfront e contratti composti da complessi algoritmi”.
I casi di cronaca superano la fantasia: Polino, comune di 280 abitanti, quattro case arroccate nella provincia di Terni, si scopre avere in bilancio contratti swap per mezzo milione di euro. Fuori dai monitoraggi i contratti sottoscritti dalle municipalizzate come la bresciana Asm o la romana Acea, un elenco vastissimo di esposizioni fuori bilancio. Mentre saltano comuni come Taranto e Catania, il ministro Tremonti corre ai ripari e, in attesa di una legge sulla materia, vara nell’estate 2008 un decreto che vieta a tutti gli enti di sottoscrivere nuovi derivati. L’effetto è tutto da valutare: nessun nuovo danno può essere fatto, come nessuna riparazione. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Ancora nel febbraio 2009 Tremonti minimizzava: “A me risulta che in questo momento molti comuni ci stiano guadagnando, ma sto verificando la notizia”. Nell’attesa di una sua verifica, consultiamo i dati della Banca d’Italia: gli enti stanno perdendo e dal 2007 il rosso cresce al ritmo di cento milioni di euro all’anno.

SICILIA, AFFARI D’ORO AL CASSIERE DI CUFFARO –
Quando il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo ha dichiarato che “l’Italia è terra di scorribande per le banche estere”, sapeva quello che stava dicendo. Robledo ha parlato il 19 dicembre dopo la condanna dei manager di quattro banche per la truffa dei derivati del comune di Milano. Ma le indagini del pm milanese hanno messo nel mirino anche le attività della banca Nomura in Sicilia, Calabria e Liguria. Il quadro disegnato dall’inchiesta del nucleo di Polizia Tributaria di Milano della Guardia di Finanza è impressionante.
La storia inizia nel dicembre 2000 quando Nomura stringe un patto con la Rossini srl di Palermo di proprietà di Marcello Massinelli (45 anni, consulente e amico di Totò Cuffaro) e Calogero Fulvio Reina, 57 anni, figlio di Giuseppe parlamentare socialista morto nel 2010. Grazie alle loro entrature, la banca giapponese si aggiudica nel 2003 la cartolarizzazione dei crediti sanitari della regione. Alessandro Cremona, allora responsabile di Nomura Sim, nell’aprile 2002 segnala con una mail al suo capo di allora Armando Vallini che la Regione Sicilia avrebbe invitato tre Istituti di credito (Deutsche Bank, Bnp Paribas e Nomura) ma il manager aggiungeva che la richiesta in questione sarebbe stata redatta sulla base di una bozza predisposta da Nomura. Nella mail il manager aggiungeva che Rossini chiedeva - in caso di successo - il 25 per cento del profitto netto di Nomura. Secondo l’antica regola beduina del “prima vedere cammello”, come spiegava Cremona, per vincere però Nomura doveva inviare prima il contratto con la promessa del 25 per cento alla Rossini e solo dopo l’offerta alla Regione Sicilia.
L’affare va ovviamente in porto e Massinelli e Reina incassano ben 10 milioni di euro, pagati sui conti svizzeri alla Banca Popolare di Sondrio di Lugano che si chiamano rispettivamente Church e Tod’s e sono intestati a una società off shore, la Navel Ltd, riferibile ai due siciliani.
Per la Guardia di Finanza sei milioni tornano in Italia in larga parte grazie agli spalloni. Interrogati gli spalloni hanno raccontato questa scena: entravano in banca e ritiravano, con l’autorizzazione dei titolari, un milione alla volta. Le banconote finivano in una valigetta nascosta nel doppio fondo della loro automobile. Lo spallone poi puntava Genova per imbarcarsi in auto per Palermo saliva le scale di un palazzo che gli era stato indicato come meta ultima del suo viaggio.
Nel 2005, quando la Regione Sicilia a guida Cuffaro decide di lanciarsi nel settore dei de si fanno avanti 18 banche. In una mail del 25 febbraio 2005, definita “molto confidenziale”, il manager Armando Vallini riferisce che la banca era ben posizionata grazie al lavoro svolto nei mesi precedenti “a livello politico” e poi aggiungeva che, come era accaduto per i crediti sanitari, Nomura avrebbe pagato le commissioni a Reina e Massinelli ma stavolta gli amici di Totò Cuffaro si accontentavano del 20 per cento dei profitti.
I tre contratti di Interest rate swap stipulati tra Nomura e la Regione Sicilia dal giugno 2005 al giugno 2006 hanno garantito alla banca 48 milioni e 89 mila euro di profitti che si vanno ad aggiungere ai 56 milioni e 363 mila euro con-seguiti nel febbraio 2003 con la cartolarizzazione.
La Guardia di Finanza contesta l’associazione a delinquere e ritiene che i profitti sui derivati siano frutto di una truffa perché Nomura era consapevole di vendere prodotti “sbilanciati” a suo favore. I derivati si basano sull’andamento dei tassi di interesse: se il tasso sale sopra o sotto una certa soglia guadagna la banca, se invece rimane all’interno della forchetta guadagna la Regione. Per questo è fondamentale fissare una forchetta equa mentre nel caso del contratto Sicilia-Nomura già al momento della stipula, la banca sapeva di avere spuntato condizioni vantaggiose che le permettevano di iscrivere a bilancio i proventi del prodotto.
Cuffaro non è indagato, anche se nelle mail dei manager del 2002 si legge che l’incarico per la cartolarizzazione (fruttato 48 milioni a Nomura e 10 milioni a Massinelli e Reina) sarebbe stato promesso personalmente a Nomura da Cuffaro. Gli investigatori notano anche che Reina e Massinelli sono stati i mandatari elettorali, cioé i responsabili dei conti delle campagne di Cuffaro dal 2001 al 2008, quando affluiscono per esempio sul conto di Cuffaro versamenti per 150 mila euro effettuati dalla società Immobiliare Monte Mario di Maurizio Zamparini.
A parte i politici e i dirigenti della Regione, tutti hanno guadagnato milioni in questa storia. I manager di Nomura, hanno incassato i bonus milionari a fine anno e Armando Vallini, ha ricevuto dalle società dei due consulenti, bonifici per complessivi 800 mila euro, che secondo gli inquirenti costituirebbero una sorta di retrocessione.
Dai conti delle società Navel Ltd e Profitview Ltd, riferibili per gli inquirenti a Massinelli e Reina, sono passati anche 2 milioni di euro poi finiti al consulente che si è occupato dei derivati della Regione Calabria Massimo Napoletano. Nel 2004 Nomura ha messo a segno profitti lordi per 34 milioni (25 milioni netti) per la ristrutturazione del debito della Regione Calabria e ha pagato 5,4 milioni di commissioni a varie società. Massimo Napolitano, amico e collaboratore del dirigente del settore bilancio, Mauro Pantaleo, che ha firmato i contratti. Napolitano è stato arrestato nel 2011 su richiesta dei pm di Catanzaro che hanno ricevuto il fascicolo da Robledo. I reati contestati per la Regione Sicilia rischiano di essere cancellati dalla prescrizione. Intanto Nomura ha fatto causa alla Regione Sicilia che ha osato chiedere di rinegoziare le condizioni capestro approvate nell’era di Cuffaro.

LA FEBBRE COLPISCE 42 MILA IMPRESE –
C’è l’azienda che ha perso milioni ed è stata costretta a chiudere negozi e a mettere decine di dipendenti in cassa integrazione, come la romana Balloon, e quella che sulla mina swap è saltata in aria. Nel senso che ha chiuso, come la barese Divania. I derivati sarebbero nati proprio per mettere imprese e risparmiatori al riparo dalle tempeste finanziarie su tassi e cambi. Si tratta, però, di strumenti finanziari complessi da maneggiare con attenzione, soprattutto se sono strutturati e sostituiti più volte, con un occhio ai costi nascosti fra le pieghe del contratto.
COSÌ COMPLICATI, rischiosi eppure sempre più gettonati. Basta leggere i dati della Banca d’Italia: le imprese per cui era stata rilevata nel 2011 un’esposizione in derivati erano oltre 42 mila. A fine giugno 2012, il numero di quelle con derivati in perdita è sceso del 4,7%, ma gli ammanchi potenziali sono aumentati del 9% a 8,2 miliardi (316mila euro di perdita media per azienda). C’è inoltre una relazione tra l’elevata esposizione in derivati e le difficoltà finanziarie delle imprese che a loro volta tendono a essere maggiori all’aumentare dell’esposizione in derivati. Un circolo vizioso che spesso finisce con il funerale dell’azienda. Soprattutto se le regole non sono rispettate.
Fra le croci delle imprese defunte c’è Divania, una delle più importanti aziende del distretto del mobile pugliese che nel 2011 è fallita dopo aver licenziato 430 dipendenti. Colpa della crisi e della concorrenza asiatica. Ma anche dei derivati sottoscritti con Unicredit fra il 2000 e il 2005, secondo il proprietario Francesco Saverio Parisi che ha portato la banca in tribunale. La procura indaga: estorsione e truffa i reati ipotizzati nei confronti di una ventina di manager e funzionari locali del gruppo. L’istituto di credito dichiara di aver operato correttamente e di confidare nella magistratura. Il caso viene citato anche nel bilancio 2011, nella parte dedicata ai contenziosi in essere. “In Germania e Italia – viene sottolineato – è riscontrabile una tendenza soprattutto da parte di investitori non istituzionali a contestare i contratti in strumenti derivati soprattutto nel momento in cui sono in perdita. Questa tendenza colpisce il sistema finanziario in generale e non specificatamente UniCredit e le società del gruppo”. Allo stato, conclude la banca, “non è prevedibile l’impatto complessivo di queste azioni”.
LA STESSA Unicredit deve fare i conti anche la denuncia del presidente di Balloon Spa, Roberto Greco: a fronte dei prestiti concessi – accusa l’azienda – la banca l’avrebbe obbligata ad acquistare derivati rischiosi con una perdita di circa 9 milioni applicando tassi di interesse vicini all’usura . I pm hanno aperto un’indagine su un dirigente e tre funzionari della banca che, sostiene, avrebbe comunque tentato di concludere un piano di rientro senza risultato mentre l’esposizione complessiva di Balloon sarebbe stata più alta di quella dichiarata indipendentemente dai derivati. C’è poi il caso della NuovaBB in provincia di Alessandria che per coprire le perdite su derivati da 50mila euro sostiene di essere stata costretta a chiedere prestiti a tassi molto elevati alla stessa banca. L’azienda ha fatto causa. La querela è stata ritirata dopo aver concluso una transazione con la banca, ma l’inchiesta penale nei confronti di due funzionari è andata avanti. L’impresa veneta Firas con i derivati ha perso un milione e 400mila euro e a novembre la procura di Venezia ha aperto un’indagine su quattro funzionari della filiale dove era stato sottoscritto il contratto. Di recente Unicredit ha invece vinto la battaglia contro una società toscana che l’aveva portata davanti al tribunale di Verona per i costi occulti e perdite di sei contratti derivati sottoscritti dal 2002 a oggi. Non c’è però solo il gruppo di Piazza Cordusio nel mirino. L’anno scorso la Procura di Prato ha avviato un’inchiesta su un prodotto bancario venduto da Intesa Sanpaolo dopo gli esposti di alcuni imprenditori che avevano firmato una “manleva” di poche righe nella quale accettavano di essere definiti “operatori qualificati”.
ESENTANDO di fatto la banca da alcune comunicazioni che avrebbe dovuto fare a un cliente meno esperto. “Il problema del collocamento dei derivati alle piccole imprese è entrato in una fase diversa”, commenta Fabio Bolognini, esperto di corporate banking e fondatore di Linker srl che assiste le piccole e medie imprese nei rapporti con le banche e nella ristrutturazione del debito. “La gran parte delle controversie sono state risolte in via stragiudiziale con compensazioni e accordi, ma se l’impresa è entrata in procedura fallimentare, l’intervento dei tribunali, dei curatori e dei commissari giudiziali (qualora determini che i derivati abbiano aggravato il passivo) fa scattare responsabilità anche penali. Non più sulla banca, ma sui dipendenti. Il coinvolgimento a titolo personale potrebbe turbare i rapporti con il personale cui viene chiesto di collocare nuovi prodotti derivati, pur con le cautele che sono state adottate successivamente alle controversie sorte nella prima fase”. Ma la bulimia di swap rischia di diventare un boomerang per le stesse banche: un 30-40% dell’esposizione in derivati delle big del credito verso le imprese è a rischio. Circa 3 miliardi da aggiungere al cumulo di incagli e sofferenze che già zavorrano il business bancario.

VENDE DERIVATI AI COMUNI: AFFARI E GUAI DI BASSOLINO JR –
Sette mesi di condanna in primo grado per la truffa dei derivati al Comune di Milano e un cognome pesante. È la “maledizione” di Gaetano Bassolino. “Siamo di fronte al clone di Antonio Bassolino”, scriveva Repubblica raccontando il debutto di Gaetano: la guida del front-office elettorale del papà nella campagna per la conquista della Regione Campania. Era il marzo 2000: Bassolino senior era allo zenit e il cronista si chiedeva se Gaetano - 24 anni, una laurea in Economia Aziendale con lode e una tesi in marketing territoriale alla facoltà di Monte Sant’Angelo - stesse “per compiere il gran salto in politica”. Poi si dava la risposta: “Il ragazzo Bassolino non vibra di passione politica, non ha intenzione di seguire l’impervia strada paterna”. Aveva ragione.
Ed eccoci al 19 dicembre 2012. Tribunale di Milano, sentenza di primo grado sulla presunta truffa dei derivati. Uno swap trentennale da 1,68 miliardi che, secondo l’accusa, sarebbe stato rifilato nel 2005 alla giunta Albertini senza fornire corrette informazioni sulle controindicazioni dell’operazione. Alla sbarra manager di quattro istituti di credito: Deutsche Bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank. C’è anche Gaetano Bassolino, dirigente Ubs. Viene condannato a sette mesi e al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per un anno (pena sospesa). Il giudice Oscar Magi condanna diversi doppi-petti e dispone la confisca di 88 milioni alle banche.
Tra l’ufficio del comitato “Vota Antonio” in via Santa Brigida a Napoli e la severa sentenza milanese sono trascorsi quasi tredici anni. Più di due lustri di alterne fortune per i Basso-lino. Durante i quali è rimasto in vigore il divieto di insinuare un legame tra il potere del Governatore Pd e la strepitosa carriera finanziaria del figlio . Un divieto rotto da poche voci. Come quella del quotidiano napoletano ‘Roma’, che il 3 luglio 2004 sparò in prima pagina: “Il grande affaire del figlio di Bassolino. La giunta affida la ristrutturazione del debito regionale a Merryll Lynch e Ubs: tra gli intermediari il ‘rampollo’ del governatore”. L’operazione superava il 1 miliardo. Bassolino padre rispose con un querelone milionario. Che fine ha fatto la causa? “L’abbiamo vinta – assicura l’autore dell’articolo , Dario Caselli – il giudice ha riconosciuto la correttezza e la pertinenza di quel che scrivemmo, come ad esempio che Bassolino jr all’interno di Ubs si occupava della gestione dei derivati per gli enti pubblici europei e quindi si poteva palesare un conflitto d’interesse. Spiegammo pure che quella ristrutturazione del debito non era conveniente per la Regione. Serviva solo a disimpegnare risorse fresche, utili per progetti da realizzare a ridosso della campagna elettorale, e a spostare in avanti il debito, una tegola per chi sarebbe venuto dieci o quindici anni dopo”. Bassolino jr ha negato con decisione nelle rare occasioni che si è concesso alla stampa: la parentela non l’ha aiutato. “Non sono al corrente dell’operazione con la Regione Campania, siamo una banca d’affari molto grande, ci lavorano 70.000 persone e non sapevo nemmeno che Ubs avesse un rapporto con la Regione”. Come è arrivato in Ubs? “Ho inviato un curriculum alla direzione Risorse Umane, ho fatto interviste, test. Mi ero proposto anche a Deutsche Bank, Credit Suisse, Lehman&Brothers. Ho scelto Ubs. E non sono un raccomandato, se si riferisce a mio padre. Non farebbe una telefonata per me, ci metterei la mano sul fuoco”.

“LE BANCHE HANNO NASCOSTO INFORMAZIONI AI COMUNI” –
I derivati non sono il diavolo, sono uno strumento utile se li si sa gestire: cosa non certo alla portata di un Comune”. Luca Zamagni è un giovane avvocato e la sua opinione sul tema ha un certo peso (“ormai mi occupo solo di questo”) viste le decine di casi, tra consulenze e cause, di cui si è occupato negli ultimi anni col network legale Axiis.
Perché un sindaco o un governatore ricorre a strumenti finanziari così complessi?
I derivati sono molti, nel caso degli enti locali soprattutto di Irs, interest rate swap, uno strumento assicurativo sui tassi di cambio. La finalità è semplice ed è scritta nella legge 448 del 2001: i derivati si possono utilizzare per gestioni attive del debito che minimizzino i rischi e consentano ‘convenienza economica’. Purtroppo non è andata così.
Spesso, ristrutturando il debito, si è ottenuta liquidità subito scaricando i costi sul futuro.
Il fiorire di questi contratti avviene nel momento in cui comincia una forte diminuzione dei trasferimenti agli enti locali.
Perché non sono stati convenienti?
Per due problemi. Il primo è una classica asimmetria informativa. Gli Irs, sono scommesse basate sulle previsioni sui tassi d’interesse: le vincono quasi sempre le banche perché hanno competenze tecniche e informazioni che un Comune non ha. E gli advisor non hanno contribuito a riequilibrare il gioco.
Cioè?
Spesso gli enti beneficiavano, diciamo così, della consulenza tecnica di una banca che, quando non era la stessa con cui avevamo firmato il contratto, era magari dello stesso gruppo.
E il secondo problema?
La corretta valorizzazione del derivato e dei costi impliciti o occulti. Questi strumenti non sono a costo zero anche se dovrebbero esserlo secondo il documento sui rischi generali della Consob. Il costo alla stipula deve essere specificato, ma non succede quasi mai.
Quindi ci sono sorprese nascoste?
Il contraente che ‘parte avvantaggiato’ dovrebbe corrispondere una somma (up front) alla controparte per bilanciare la situazione: le banche, però, nella maggior parte dei casi non lo hanno fatto o lo hanno fatto solo parzialmente, appellandosi ai costi vivi per la gestione dei derivati e ai rischi tipo quello di controparte. Vale a dire mi copro perché tu comune potresti dichiarare il dissesto finanziario. Curioso che il rischio di controparte al contrario non valga.
Qual è il problema?
La pretesa delle banche di vedersi remunerare i costi senza nemmeno dichiararli. Molto del contenzioso si gioca su questo.
Con quali risultati?
C’è una buona giurisprudenza civile sulla trasparenza dei contratti. Tra i miei casi posso citare i comuni di Rimini e Orvieto. Quella amministrativa, invece, riguarda gli enti che hanno scelto di ‘annullare in autotutela’ le delibere esponendosi ai ricorsi al Tar: recentemente il Consiglio di Stato ha dato ragione alle banche.
E condanne per danno erariale agli amministratori?
Ci sono state alcune inchieste, ma non mi risultano condanne. A livello penale c’è solo la sentenza di Milano.
Bankitalia dice che gli enti locali stanno già perdendo 1,3 miliardi sui derivati.
Probabilmente di più, visto che loro leggono solo le perdite di chi ha stipulato derivati con banche italiane, ma molti Comuni si sono rivolti a istituti esteri, a volte su modulistica internazionale. Alcune cause si svolgono a Londra.
Ora qual è la situazione?
Al momento i derivati non si possono più fare. La moratoria è stata decisa per decreto da Tremonti nel 2008, in attesa dell’approvazione di un regolamento che riordinasse la materia: sono passati cinque anni e quel testo ancora non c’è.