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 2013  gennaio 22 Martedì calendario

Giuseppe Meazza, detto Peppìn, è stato il primo in molte storie e in molte cose. Il più bello, il più bravo, il più forte

Giuseppe Meazza, detto Peppìn, è stato il primo in molte storie e in molte cose. Il più bello, il più bravo, il più forte. Cioè il più grande giocatore italiano di tutti i tempi. Due volte campione del Mondo con la Nazionale e altro ancora. El Peppìn, ha scritto il leggendario Gianni Brera, è il football, anzi "el folber". Perché "vede" il gioco del calcio. Vede tutto, capisce tutto, fa gol quando vuole e come vuole. Possiede scatto, velocità, tocco raffinato, gioco aereo notevolissimo, tiro non potente ma preciso, opportunismo. I milanesi, dell’Inter e non solo, dicono: «El Peppìn l’è vun ch’el gha la bala legada ai pé cun la curdeta». Ha la palla legata ai piedi con lo spago. Anche viveur El Peppìn, negli anni Trenta, è anche un ricco e sofisticato viveur, giocatore d’azzardo, ballerino di tango, gardenia bianca all’occhiello di impeccabili completi blu gessati. E’ il primo giocatore ad avere lo sponsor. Il primo a fare pubblicità. Gioca anche se, dicono, fuma due pacchetti di sigarette (marca Giubek e Macedonia) al giorno, ma «i suoi denti sono sempre bianchi perché usa il dentifricio Diadermina». Uomo e bandiera dell’Inter, diventa (1947) allenatore-giocatore, in coppia con il giornalista Nino Nutrizio. Poi solo al comando. Ma, sottolineano, «è stato troppo grande, da giocatore, per calarsi con disinvoltura nei panni dell’allenatore». Gli affiancano un "tutore", Carlo Carcano, lui lascia l’Inter e va all’estero. Primo italiano anche qui. Lo chiamano dalla Turchia, quelli del Besiktas, alla fine del 1948. Nella bella biografia «Il mio nome è Giuseppe Meazza», a cura di Marco Pedrazzini e Federico Jaselli Meazza, il mito Peppìn racconta: «Non me la sentivo di lasciare la mia famiglia, la mia città e i miei amici. Non ero tagliato per la vita nomade, per le trasferte a lunga scadenza. Il mio mondo era Milano, dove poi sarei tornato grazie all’amicizia di Angelo Moratti. Ma quando si hanno due bambine da crescere bisogna guardare in faccia alla realtà e sapersi adattare». A Istanbul Giuseppe Meazza firma un contratto stagionale e parte per Istanbul il 18 gennaio 1949. Fa molto freddo, lo accompagnano alla stazione Centrale la moglie Rita e le figlie Liliana e Gabriella. Il treno parte per Roma, il saluto è struggente con molte lacrime. Ci sono anche i suoi amici. Peppìn è commosso fa ciao con la mano dal finestrino. Un suo giovane allievo centravanti, Benito Lorenzi detto Veleno, gli urla: «Mi raccomando Pepp, torna presto!». Il giorno dopo Meazza prende "l’apparecchio" da Fiumicino e vola a Istanbul. La Turchia di Peppino è calda e accogliente. Lavora, si fa benvolere, i dirigenti lo stimano, i giocatori sembrano seguirlo. E lui con la lingua? «Capis nagot». Capisce niente o poco. Però è il grande Meazza, molto più di un "forestiero". In allenamento la squadra al completo s’incanta a guardare i suoi stop a rientrare e i suoi tiri di mezzo collo. Gli offrono il rinnovo del contratto, ma lui dice no. Qui, dice, mi trovo bene, anzi benissimo. Ma, sapete, ho una cosa che mi prende qui, un buco allo stomaco. «Ho il mal di Patria"» dice il Pepp. Voglia di Milano Nostalgia, saudade meneghina. Racconterà: «Ho sofferto. La stessa nostalgia che sente un giovane di 20 anni quando viene chiamato alle armi e deve lasciare la sua casa e la fidanzata». Parla bene del calcio turco, della gente, dei tifosi: «Ho trovato un affetto commovente. Ricordo con piacere tutti i ragazzi della squadra e le sfide contro il Galatasaray. Mi vengono in mente alcuni calciatori: Sukru, Bulent, il simpatico Alì, il biondo Kaleci… E poi Sol Bek, il cui nome assomigliava a quello di un altro calciatore, Sag Bek. Vista l’assonanza avevo deciso di chiamare con un fischio l’uno, con due fischi l’altro». Il 23 giugno 1949, dopo cinque mesi, rientra all’aeroporto Forlanini, Cinque mesi lontano dalla famiglia. Senza le sue bambine, la miè, la moglie, gli amici. Senza il suo calcio, il derby (si perde un 4-4),le campane milanesi e il bitter al selz. Racconterà: «Prima di lasciarmi partire i dirigenti e i giocatori mi caricarono di regali e io, per dimostrare che non li avrei mai dimenticati, accettai di scendere in campo». Gioca un tempo nel Besiktas contro l’Austria Vienna. Ricorderà spesso: «Una gran partita, avevo trentanove anni. I giornali hanno scritto che sono stato il migliore in campo. E’ stato bello, ma sono tornato nella mia Milano. Perché, fioeu, Milàn l’è on gran Milàn». Tè capì, Sneijder?