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 2013  gennaio 20 Domenica calendario

IL DIARIO DELLA JIHAD MILANESE - L’

auto si ferma al checkpoint. Durante i controlli, secondo le fonti ufficiali, dall’abitacolo partono alcuni colpi. La reazione è una scarica di fuoco. Raffiche di proiettili investono la Toyota Land Cruiser. Sfondano i finestrini. Trapassano il cofano, il parabrezza e gli sportelli. Dentro il fuoristrada restano tre cadaveri. Altri due uomini hanno provato a salvarsi. I loro corpi sono a terra, vicino alle ruote. Il sangue si impasta alla neve sul ciglio della strada. Sono le 11,30 del mattino, 14 dicembre 1995, appena fuori dalla cittadina di Zepce, cuore montagnoso della Bosnia.
I morti sono cinque arabi. Tra loro c’è un nome eccellente: Anwar Shaaban, l’emiro, la guida politica e spirituale della jihad in Bosnia. È l’imam che l’8 settembre 1989 era atterrato all’aeroporto di Linate e, in pochi mesi, aveva portato la moschea milanese di viale Jenner al rango di una delle «stazioni» più importanti dell’integralismo islamico in Europa. Se non fosse stato ucciso, lo avremmo trovato molto in alto nella gerarchia islamista. Al fianco di personaggi diventati guide ideologiche per migliaia di militanti.
La Toyota è targata «SA-2142-AA», si scoprirà che è intestata a un’organizzazione umanitaria tedesca con sede a Sarajevo. Tra i due sedili anteriori, vicino al cadavere riverso dell’autista, viene trovata un’agenda con la copertina blu. È il diario di Shaaban: da quel giorno resterà un documento misterioso, carico di segreti e retroscena sugli intrecci tra le reti dell’islamismo, l’Italia e la guerra nei Balcani.
Appunti, nomi e Santa Genoveffa
Proprio la mattina in cui Shaaban muore, i leader dei Paesi che si sono affrontati nella carneficina della ex Jugoslavia sono riuniti a Parigi. Ratificano gli accordi di pace già siglati tre settimane prima a Dayton. Una clausola di quei trattati è dedicata ai mujaheddin stranieri che nei tre anni precedenti, passando in buona parte dall’Italia, sono confluiti in Bosnia per combattere al fianco dell’esercito di Alija Izetbegovic. Per sostenere i musulmani bosniaci, hanno portato la loro jihad alle porte dell’Europa. Da un passaggio del diario di Shaaban: «Non siamo venuti qui per la libertà, né come mercenari, né come volontari. Siamo stati guidati dalla dottrina del supporto, è un obbligo che abbiamo verso qualsiasi gruppo di musulmani nel mondo». Ora però la comunità internazionale pretende che siano espulsi.
Mentre i presidenti di Bosnia, Serbia e Croazia firmano i trattati che mettono fine alla guerra, la sparatoria fra le montagne di Zepce «decapita» il battaglione dei mujaheddin. E in qualche modo, indirettamente, porta a compimento una parte della clausola sulle espulsioni. Secondo i gruppi islamisti non è stato un incidente, ma un’imboscata. Shaaban e gli altri alti ufficiali arabi sarebbero stati spazzati via in nome della Realpolitik, quando agli occidentali non servivano più i combattenti accorsi in aiuto dei bosniaci.
Dentro la Toyota beige crivellata dai colpi resta il diario dell’imam di Milano. È una vecchia agenda della Ras, di quelle che la compagnia di assicurazioni regala ai clienti a fine anno. Nell’angolo in alto delle pagine, accanto alla data, sono indicate le ricorrenze cattoliche di Santa Genoveffa, San Giuliano, Epifania... L’agenda è zeppa di appunti, nomi, numeri di telefono, verbali di riunioni redatti sotto dettatura da un uomo di fiducia dello sheikh, scritti in arabo su pagine a quadretti. C’è anche un indirizzo di Milano, via Teano 21: è lì che Shaaban viveva con la famiglia, nel cuore del quartiere Comasina, un tempo famoso come territorio del bandito Vallanzasca.
Mezz’ora dopo la sparatoria di Zepce un ufficiale della polizia militare croata, Luka Babic, sottrae l’agenda dalla scena del crimine. Da quel momento il diario «scompare». È un documento scomodo per tutti, perché certifica gli strettissimi rapporti tra lo Stato bosniaco (difeso dall’Occidente contro l’aggressione serba), il presidente Izetbegovic e i mujaheddin. Diventerà ancor più scomodo dopo l’11 settembre 2001: quelle pagine raccontano un pezzo di storia della jihad internazionale, esportata prima in Afghanistan contro i sovietici, poi in Bosnia (in seguito in Cecenia, e ancora in Afghanistan e in Iraq). Oggi «la Lettura» può raccontare il contenuto di quel diario, rintracciato nell’immenso archivio del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia. Il documento, insieme ai report confidenziali dei servizi segreti balcanici sui retroscena della morte di Shaaban, è stato acquisito dalla procura dell’Aja nel processo contro Rasim Delic, capo delle forze armate bosniache condannato in primo grado per i crimini di guerra commessi dai mujaheddin (torture, maltrattamenti, decapitazioni di prigionieri serbi).
Dall’Egitto a Milano
Egiziano, alto, carismatico, coltissimo. Shaaban nasce nel 1956; si laurea in ingegneria ad Alessandria, nel 1982; poco dopo stringe rapporti con le famiglie degli assassini del presidente Anwar Sadat. Inizia ad assistere gli estremisti che vanno in Afghanistan per combattere contro i sovietici. L’attività antigovernativa lo spinge a lasciare l’Egitto. Si sposta in Giordania, Arabia Saudita, secondo alcune fonti anche in Afghanistan, infine in Kuwait. È da lì che arriva a Milano.
A quel punto ha già scalato le gerarchie del movimento integralista egiziano «Jamaa al Islamiya», e sotto la sua guida la moschea di viale Jenner si trasforma in una realtà internazionale, venerata e al centro di indagini di polizia. A partire dal 1992 la Digos milanese intercetta le linee dell’Istituto culturale islamico di viale Jenner. Centinaia di telefonate e fax svelano che Shaaban è in contatto con il famoso «sceicco cieco» Omar Abdel Ramhan (guida ideologica del primo attentato contro le Torri Gemelle nel 1993) e con Ayman Al Zawahiri, leader del gruppo «El Jihad» e futuro braccio destro di Bin Laden. In viale Jenner arrivano regolarmente le rivendicazioni di attentati della «Jamaa» in Egitto. Dalla gestione di Shaaban passa una parte dei finanziamenti per i mujaheddin. Milano diventa il centro nevralgico per trovare documenti, visti (spesso umanitari o giornalistici) e assistenza nel viaggio dei mujaheddin verso la Bosnia, sulla rotta Ancona-Spalato-Zagabria. Dal fronte jugoslavo Abu El Maali, capo militare del battaglione e futuro «colonnello» di Al Qaeda, manda regolarmente via fax allo sheikh di Milano resoconti di battaglie e richieste di consigli.
Il 24 aprile 1993 Shaaban è a Copenaghen tra i quattro fondatori della «Shoura dell’Unione europea», il primo coordinamento dell’integralismo egiziano in Europa. Nella riunione (il verbale verrà sequestrato dalla Digos in viale Jenner) vengono definite le modalità per «il sostegno e l’appoggio ai mujaheddin» in Algeria, Tunisia, Sri Lanka, Bosnia. A presiedere la «Shoura» è Abu Talal Al Qassimi, portavoce in Europa della «Jamaa al Islamiya».
Tra la fine del 1994 e l’inizio del ’95 Shaaban arriva nei Balcani. Per una sorta di diritto naturale, data la sua statura intellettuale, assume il ruolo di leader del battaglione. In almeno un’occasione (esistono i video) incontra il presidente Izetbegovic.
Sbandamento
Alla fine del 1995 gli equilibri però cambiano. Gli accordi di pace sono delineati. Le intelligence occidentali mandano fortissimi segnali di preoccupazione per la presenza di estremisti dall’altra parte dell’Adriatico. I mujaheddin diventano indesiderabili. Il 13 dicembre scatta l’ordine di smantellamento del loro battaglione, inquadrato nel III° Corpo bosniaco. È il prezzo che Izetbegovic deve pagare a Washington. Shabaan è informato, da giorni ne discute con i suoi. I resoconti di queste riunioni sono tra i passaggi più drammatici e importanti del suo diario. A partire da un punto critico: «Le persone per le quali siamo venuti a combattere sono le stesse che ora vogliono espellerci». E alle spalle dei bosniaci si profila sempre più chiaro il ruolo degli Usa, che «hanno prima lasciato soli i musulmani, poi sono intervenuti quando si sono resi conto che Dio è arrivato a salvarli». Secondo i capi arabi gli americani «capiscono che l’esercito bosniaco sta crescendo e accogliendo sempre più mujaheddin... Per questo Stati Uniti ed Europa sono spaventati». I combattenti «stranieri» possono essere espulsi o perseguitati; molti sperano di restare grazie alla nazionalità bosniaca (acquisita per «meriti militari» o attraverso i matrimoni con ragazze del posto). Abu al Harith ricorda che sono venuti per portare avanti la «Jihad nel nome di Dio», poi suggerisce di trovare una soluzione simile all’«Istituto di Milano» (viale Jenner), cercando di stabilirsi nella comunità allontanando i sospetti e le paure.
L’intelligence Usa ha cercato di contattarli, ma loro hanno respinto l’abboccamento. Si propone di adottare un profilo basso, pur essendo pronti a «regolare i conti con inglesi, americani, croati». Con la fine della guerra cambia il nemico: non più l’esercito serbo, ma le forze Nato e i croati, «infedeli» legati ai «crociati» americani. I pragmatici sperano che Sarajevo trovi una soluzione favorevole, gli estremisti invocano la lotta «come fece Tariq Ziyad durante la conquista dell’Andalusia» (nella campagna militare dell’anno 711, il condottiero prospettò al suo esercito la vittoria come unica possibilità: «Avete il mare alle spalle, e il nemico di fronte a voi»). La «Gamaa» — il gruppo — può reagire a quello che considera un tradimento solo con le armi: «La jihad potrebbe essere portata avanti in forma di guerriglia». Il 14 dicembre (poche ore prima della morte) Shaaban tiene una nuova riunione operativa. Sarà sostenitore di una soluzione «moderata».
Dagli appunti emergono riferimenti «ai feriti in Italia... ai dottori in Italia». Non è strano. Lo sceicco fa arrivare dal nostro Paese volontari, aiuti, medicinali e spedisce indietro videocassette di propaganda che verranno poi fatte girare nelle comunità. È il resoconto dall’interno di un gruppo che si sente in pericolo. I mujaheddin hanno subito vessazioni e umiliazioni. Temono di lasciare l’enclave bosniaca, sospettano che i croati stiano preparando imboscate. Accanto ai frammenti di vita quotidiana, il diario entra nel cuore di una questione ancora attuale: oggi, in Siria, i Paesi Nato sono vicini alla ribellione contro il regime di Assad dove i colori islamici sono i più forti, e per questo c’è il timore di fare il gioco dei «radicali».
«La jihad non è finita»
Un rapporto dell’intelligence bosniaca descrive un incontro del 13 dicembre 1995 tra i comandanti militari ed esponenti del battaglione «El Mudzahedin». Shaaban sottolinea che l’accordo di Dayton è «probabilmente una buona soluzione per la Bosnia», ma i suoi uomini hanno «delle riserve». L’imam, tuttavia, spiega di essere pronto a deporre le armi, anche se vorrebbe che rimanessero disponibili «nel caso vengano attaccati dagli americani». Shaaban suggerisce che i militanti che resteranno in Bosnia partecipino «alla vita civile» con la preghiera e la predicazione. Gli 007 bosniaci, però, non si fidano. E citano un volantino dove i mujaheddin denunciano le manovre Usa: «Non vogliono aiutare, ma solo spargere corruzione e debolezza... Non lasceremo mai la Bosnia alla Nato e agli americani. Per quello che ci riguarda, la Jihad non è finita». Determinazione che si alterna a sfiducia. E che si mescola a una rete di trame sotterranee sempre più oscure, legate ai timori occidentali per il fatto che in Bosnia e Croazia si stabiliscano colonie jihadiste.
Qualche mese prima, il 17 settembre 1995, l’imam di Copenaghen Abu Talal (l’uomo che Shaaban aveva incontrato in Danimarca), atterra a Zagabria con un volo da Amsterdam e «scompare» nelle mani dell’intelligence croata e americana. Verrà interrogato su una nave nell’Adriatico e poi portato in Egitto dove si perderanno le sue tracce (con ogni probabilità è stato ucciso). Poco più di un mese dopo, il 20 ottobre, una Fiat Mirafiori targata Bergamo esplode davanti alla questura di Fiume, in Croazia (kamikaze morto e 26 feriti). Le inchieste stabiliranno fortissimi legami dell’attentato con Milano; alcuni gruppi integralisti lo rivendicheranno come reazione per la scomparsa di Abu Talal. Sono i segni di una nuova «guerra» sotterranea che si consuma durante la coda del conflitto balcanico. I nuovi documenti raccontano anche di un’auto che il 12 dicembre 1995 esplode misteriosamente nel quartier generale dei mujaheddin di Bosnia, a Zenica.
A pochi chilometri di distanza, due giorni dopo, Shaaban e i suoi quattro «colonnelli» vengono uccisi al posto di blocco croato (da quel checkpoint, per mesi, i mujaheddin erano passati regolarmente e senza contrattempi). Il battaglione sbanda.
Il laboratorio
Il 17 dicembre l’intelligence bosniaca intercetta un fax inviato da Abu Ammar Al Brittani: «Dove possono andare i fratelli senza documenti o passaporti… Pensate che gli infedeli (i croati, ndr) ci lascino passare?». I seguaci dell’imam temono di essere «presi uno a uno» e sostengono che il solo modo «per difendere i diritti dei musulmani sono il Corano e il kalashnikov». Viene anche suggerito di nascondere le armi in montagna e di restare in città «come civili», in attesa che la tempesta passi o che si trovi un nuovo «posto sicuro», che — dice il fax — «potrebbe essere la Cecenia».
La campagna di Bosnia ha fatto da laboratorio. Molti compagni di Anwar Shaaban hanno proseguito il cammino associandosi ad altre «carovane» della Jihad, diventando leader di gruppi temibili. Personaggi che erano in contatto con l’imam negli anni 90 hanno acquisito un peso internazionale che all’epoca pochi immaginavano. Alcuni sono stati uccisi con il mitra in mano. Altri sono scomparsi, inghiottiti in questi anni di guerre. Un pugno di loro è ancora in giro, a testimoniare quanto sia forte l’ideologia nella quale credeva l’imam venuto da Milano.
Guido Olimpio
Gianni Santucci