Carlo Vulpio, la Lettura (Corriere della Sera) 20/01/2013, 20 gennaio 2013
IL ROMBO DEL DRAGO
Lo chiamavan Drago, il Munari Sandro. Come il Cerutti Gino della famosa ballata di Giorgio Gaber. Anche all’estero lo chiamavano così. Ma per farsi capire dal mondo intero i suoi tifosi ricorrevano all’inglese e sulle curve a gomito delle strade innevate o sui dossi sterrati che facevano mangiare polvere a tutti, spettatori e piloti, lo accoglievano e lo incitavano agitando cartelli con su scritto «The Drake». Si riferivano a lui, al Munari Sandro, certo, che su quegli stessi cartelli era raffigurato come il mitologico bestione sputafuoco che divorava i piloti avversari e le loro auto, ma si riferivano anche a Francis Drake, il più famoso corsaro della storia, il primo circumnavigatore del globo terrestre. Francis, per le scorrerie off shore, al comando delle sue navi, 400 anni prima. Sandro, per le sue lunghissime tappe on shore, alla guida delle auto da rally della Lancia, negli anni Settanta del XX secolo. Entrambi nocchieri, sperimentatori, esploratori, pronti all’avventura. Però mai improvvisatori. Ed entrambi — curiosi capricci della storia, o fenomeni soprannaturali di reincarnazione — nominati Cavalieri grazie alle loro imprese. Dalla regina Elisabetta I, The Drake. Dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, Il Drago.
Munari Sandro da Cavarzere, Venezia, anni 72, con la Lancia — prima la Flavia, poi la Fulvia coupé e infine la Stratos — ha vinto tutto. A casa sua, nel centro di Bologna, coppe e trofei occupano un’intera stanza. Elencare le sue vittorie non si può, richiederebbe troppo spazio e risulterebbe persino noioso. Ma non si possono non citare i quattro Rally di Montecarlo che Munari ha vinto — insieme con il fedele navigatore Mario Mannucci (morto 13 mesi fa) — nel 1972 e poi per 3 anni consecutivi dal ’75 al ’77, il primo campionato del mondo piloti (1977) e la Targa Florio 1972, vinta con la Rossa, la Ferrari. Una gara che in pratica era un altro rally, visto che si disputava su un percorso stradale di 72 chilometri, in undici giri, sui monti delle Madonie, in Sicilia. Fu un altro Drago, il Drake Enzo Ferrari, a convincere Munari a correre con la Rossa di Maranello.
«Ferrari era una persona speciale, sapeva guardare lontano — dice Munari —. Quando chiese alla Lancia di darmi in prestito alla sua scuderia per correre la Targa Florio, usò un argomento molto convincente: il motore a sei cilindri della Dino Ferrari 246. Se io fossi andato con la Ferrari, il motore della Ferrari sarebbe andato alla Lancia. Così nacque la Lancia Stratos, con cui vincemmo tre Montecarlo di fila e tante altre gare, in Spagna, in Corsica, in Africa. Ma con Enzo Ferrari, che pure era un tipo riservatissimo, nacque anche una vera amicizia. Tanto che venne persino al mio matrimonio, lui che non andava mai nemmeno ai matrimoni e alle feste dei suoi più stretti collaboratori».
La vita di Munari è ricca di ricordi belli. Non solo i successi e i trionfi nei rally di tutto il mondo. Ma anche l’affetto popolare e la passione dei tifosi, che ancora oggi si ritrovano nei club che portano il suo nome. O la dichiarata ammirazione da parte dei personaggi più in vista del jet set di quegli anni, dai principi di Monaco, Grace Kelly e Ranieri, a Gianni Agnelli. Come per Ferrari, anche per Agnelli, Munari era un amico, non soltanto un campione, o peggio, un robot del volante. «Di Gianni Agnelli avevo anche il numero telefonico di casa — racconta Munari —. Ci sentivamo anche solo per chiacchierare così, senza uno scopo preciso… Era sempre gentile. Non si negava mai. E soprattutto non se la tirava. Fu lui la prima persona a cui comunicai con un anno di anticipo il mio ritiro dalle corse, avvenuto nel 1979, quando avevo 39 anni».
La vita di Munari però è anche segnata da ricordi tristi. Uno in particolare, che porta la data di oggi, 20 gennaio, e risale a 45 anni fa, è quello che Munari piangendo definisce «il mio grande rimorso», anche se in realtà è la sintesi della sua vita, della sua umanità, della sua concezione dell’uomo e della macchina e della giusta relazione che dev’esserci tra l’uno e l’altra.
È il 1968. Siamo nei Balcani, a Skopje, Jugoslavia, oggi Macedonia. Sotto una tormenta di neve, Munari e il suo navigatore, Luciano Lombardini, stanno andando da Atene a Trieste in una di quelle lunghe tappe di trasferimento che caratterizzavano il Rally di Montecarlo e ne hanno fatto la fortuna («poiché era la gara, che, secondo un itinerario culturale e turistico, andava a trovare il pubblico di tutto il mondo e non viceversa»). Con Lombardini, l’anno prima, Munari aveva vinto sei gare su sei, tra le quali il Tour di Corsica, «che per me è stato anche più importante del Rally di Montecarlo, perché abbiamo vinto sull’asfalto una gara di 1.400 chilometri non stop lungo il tragitto tortuoso da Ajaccio a Bastia, con un’auto, la Fulvia, di appena 123 cavalli e a trazione anteriore». Lombardini voleva smettere, ma Munari riesce a trascinarlo con sé. «Dài, vinciamone ancora una e poi smetti», gli dice. Purtroppo, per Lombardini quella fu davvero l’ultima gara. Munari ha guidato per tutta la notte, fino alle otto del mattino. È stanco. Chiede a Lombardini di dargli il cambio al volante, per potersi riposare un po’ sull’altro sedile, che è reclinabile. «Da quel momento, non ricordo più nulla — mormora Munari —. Mi sono risvegliato in un ambiente che solo dopo ho capito essere un ospedale e ho visto mio padre. "Avete avuto un incidente", mi dice. Gli chiedo dov’è Luciano. E lui mi risponde che è ricoverato in un’altra stanza. Invece era morto. A una decina di chilometri da Skopje, un disgraziato alla guida di una Mercedes con quattro persone a bordo aveva sorpassato un camion su una semicurva ed era finito addosso alla nostra auto, proprio sul lato guida, occupato da Luciano. Fummo scaraventati in una scarpata e ciò che accadde dopo lo so perché mi è stato raccontato. Mi hanno detto che ero risalito da solo fin sul ciglio della strada, che avevo la milza spappolata e mi restavano quindici minuti di vita e che sono stato soccorso dagli altri equipaggi che partecipavano al rally».
Cos’è, se non una tragica beffa, essere riusciti a dominare sempre il mezzo meccanico, fin da ragazzino a bordo di go-kart autarchici e poi da professionista anche nelle competizioni più difficili, scoprendone i segreti e i pericoli nascosti, per insegnare a tutti, non solo ai giovani piloti, a guidare in sicurezza e un giorno incontrare la morte in un «banale» incidente stradale e nemmeno per colpa propria? La tragedia di quel 20 gennaio 1968 è rimasta impressa per sempre nella mente e nel cuore di Sandro Munari. E così, da 10 anni a questa parte, da quando ha conosciuto il parroco della Chiesa Nuova di Padova, don Piero Toniolo — un prete appassionato di auto e di corse, che quando era ancora in seminario leggeva di nascosto «Autosprint» —, Munari è riuscito a fare del 20 gennaio la giornata in cui viene celebrata una messa in memoria di tutti i piloti di auto da corsa «caduti sul campo». «Perché i piloti non sono dei pazzi — dice il Drago —. Al contrario. Il loro primo obiettivo è la conoscenza del mezzo, delle sue potenzialità e dei suoi limiti, e quindi essi sono portatori di un sapere, di una cultura, che si rivela utile per tutti. Preparazione e concentrazione sono le premesse della sicurezza. Altro che patente a quiz o multe su multe dell’Autovelox per far cassa, come se fosse la sola velocità e non la mancanza di conoscenza e padronanza del mezzo la causa degli incidenti stradali, che nel Novecento in tutto il mondo hanno fatto all’incirca trenta milioni di morti. Il doppio delle vittime della Prima guerra mondiale».
La guida sicura, specialmente da quando ha abbandonato l’agonismo, è sempre stata un’idea fissa di Munari, che in questi anni ha messo a punto un progetto di educazione stradale che vorrebbe proporre alle scuole italiane «e che però va integrato da corsi pratici di guida dopo il conseguimento della patente, come avviene in Olanda e in Germania». Ma se il valore di un pilota sta nella sua capacità di controllare il mezzo meccanico, «il valore di un’auto — spiega Munari — te lo dimostra solo una prova sportiva, non la pubblicità, e lo dico col cuore, non per nostalgia del rally che fu, poiché è stato grazie a questo principio se noi della Lancia abbiamo potuto far scuola a tutti». E infatti, quando la Lancia Fulvia coupé nel ’72 si mangiò Porsche, Alpine-Renault, Mini, Citroën e Ford, oltre ai 161 mila esemplari già venduti, ne vendette subito altri 51 mila, «un dato che, oltre a dimostrare qual era il vero punto di forza dei rally rispetto alle corse di velocità su pista, consentì di non interrompere la produzione della vettura, che andò avanti per altri 6 anni». Invece, dalla metà dei Novanta le cose sono cambiate e oggi il rally praticamente non c’è più, dice Munari. «Hanno cambiato i regolamenti e la Fia (Federazione internazionale automobilistica) e il suo presidente Jean Todt non hanno mai voluto ascoltare chi come me riteneva un grave errore rendere il rally sempre più simile alla Formula Uno, portandolo in un luogo circoscritto, con l’assistenza e tutto quanto, per concentrare lì le tv. Il risultato qual è? Costi lievitati in maniera sproporzionata e riproducibilità delle vetture uguale a zero».
Il Tour de France del Drago durava nove giorni e nove notti, con sole tre o quattro ore di riposo ogni trentasei. E il suo Safari Kenya era di 6 mila chilometri, ma dentro l’angusto abitacolo della Stratos, una pentola dalla temperatura di 60 gradi, non solo per il caldo della savana, ma anche per il motore nella parte posteriore, il radiatore dell’acqua in quella anteriore e, sotto il pianale, i tubi dell’acqua per il raffreddamento. Mentre la Mille Laghi di Finlandia era tutta percorsi sterrati e saliscendi da ottovolante. Forse solo il navigatore, o co-pilota, è rimasto quello che era. Perché è essenziale nell’indicare al pilota il grado dell’angolo di ogni curva. Il timing, in questo, è tutto. Se no si finisce fuori strada in un attimo. «Proprio come nella musica». Che tu sia il Munari Sandro o il Cerutti Gino.
Carlo Vulpio