Marco Ventura, la Lettura (Corriere della Sera) 20/01/2013, 20 gennaio 2013
IL CODICE A META’ FRA CIELO E TERRA
Si odia o si ama la Chiesa di Roma, amando o odiando il diritto canonico, che regola tutti gli aspetti della sua attività. Nel rogo delle decretali pontificie, Lutero volle bruciare l’eresia papista, e suscitare dalle ceneri un nuovo cristianesimo. Diede l’esempio opposto, negli stessi anni, Thomas More: il quale amò da giurista la Chiesa dei canonisti, e difese fin sul patibolo le prerogative pontificie dalla prepotenza del re d’Inghilterra Enrico VIII, illegittimo capo di vescovi orfani dell’autorità romana. Per i filosofi dei Lumi i canoni — le norme del codice della Chiesa — simboleggiavano l’arbitrio e la diseguaglianza; per i preti che rifiutarono di giurare fedeltà alla rivoluzione francese, e che furono perciò giustiziati, la legge della Chiesa toccava la coscienza e valeva la vita. Il diritto liberale relegò il diritto canonico nel ripostiglio in cui la filosofia aveva rinchiuso la teologia: dove lo Stato moderno tutelava diritti, i canoni sancivano soprusi, dove l’autorità sovrana incontrava limiti, l’autorità ecclesiastica comandava a discrezione. Il sistema canonico era al cuore della farragine di leggi e tradizioni che Beccaria definì «uno scolo de’ secoli i più barbari».
Il tempo ha poi stemperato lo scontro. Il diritto canonico s’è lavato via gran parte dello spirito assolutistico che lo abitava ancora un secolo fa; a suo modo, la Chiesa ha persino codificato i diritti dei fedeli. Dal canto loro, giuristi e filosofi sono divenuti più tolleranti verso la diversità giuridica incarnata dai diritti religiosi e dal diritto canonico in particolare. Sappiamo ormai che senza i canonisti non avremmo il principio maggioritario, l’imputabilità del reo, la collegialità, la soggettività e il consenso. Dobbiamo a giuristi anglosassoni come Harold Berman, inclini alla simpatia verso i papisti perseguitati e coraggiosi, la consapevolezza che la sfida della sovranità pontificia all’imperatore, e ai sovrani assoluti, fu cruciale perché il diritto occidentale potesse sviluppare la propria dinamicità.
Fu soprattutto resistenza all’onnivoro Stato moderno e dimostrazione dell’autosufficienza e della perfezione giuridica della Chiesa, il primo codice canonico della storia. Ne deliberò la preparazione il Concilio Vaticano I, con le truppe italiane alle porte di Roma, e fu promulgato nel 1917, mentre l’apparizione della Vergine a Fatima e di Lenin a Pietrogrado annunciavano lo scontro epocale con il nuovo Anticristo secolare. Ancora oggi i canoni presidiano la sovranità e la libertà della Chiesa, ne preservano unità e identità: contro il governo cinese, che vuol farsi i vescovi da sé, contro i cattolici tedeschi, che non vogliono pagare le tasse alla Chiesa, o contro i seguaci di monsignor Marcel Lefebvre, che si ritagliano una disciplina indipendente dall’autorità di Roma. Il diritto canonico è dunque nei grandi momenti delle scomuniche, dell’elezione del Papa, della nomina dei vescovi, ma è soprattutto nella vita quotidiana dei fedeli: l’ordinazione o la rimozione di un sacerdote, il matrimonio, il battesimo, la liturgia, il consiglio parrocchiale e i beni diocesani. Nella vita ecclesiale le norme canoniche accompagnano le crisi e l’ordinario, il frastuono e il fruscio.
La storia della Chiesa è la storia del suo diritto. È sviluppo di regole, istituti e meccanismi; formazione di un sapere; scrittura delle fonti. Di questa storia celebriamo il 25 gennaio il più importante capitolo contemporaneo: la promulgazione nel 1983 del vigente codice di diritto canonico. Nella costituzione apostolica che presentava il codice, Giovanni Paolo II collegò la data alla storia della nuova codificazione e al suo senso. Il 25 gennaio 1959, ricordò il papa polacco, Giovanni XXIII diede l’annuncio della celebrazione di un Concilio ecumenico che avrebbe condotto «all’auspicato e atteso aggiornamento del codice di diritto canonico». Il rinnovamento conciliare, spiegò Giovanni Paolo II nel 1983, è la fonte storica e teologica di quella che il Pontefice definì la «riforma» del codice. In equilibrio tra novità e tradizione, il nuovo codice condivideva con il Concilio, scrisse il Papa, «la stessa nota di fedeltà nella novità, e di novità nella fedeltà». Fatta salva la «continuità» col passato, il Pontefice elencò gli elementi del codice nei quali risaltava in particolare modo «l’immagine vera e genuina della Chiesa» proposta dal Vaticano II: la Chiesa come popolo di Dio, i cui membri «nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice ufficio di Cristo: sacerdotale, profetico e regale». Donde il riconoscimento dei doveri e dei diritti dei fedeli, e particolarmente dei laici; l’autorità gerarchica «proposta come servizio»; il principio di «comunione», in particolare tra Chiese particolari e Chiesa universale, fra vescovi e Papa; e l’impegno della Chiesa per l’ecumenismo.
Nei suoi tre decenni di vita il codice del 1983 ha testimoniato la ricerca d’un equilibrio tra vecchio e nuovo, tra autorità e libertà, tra vertice e base, tra unità e diversità. Quando l’idolatria del dogma ha oscurato la realtà, quando si è usato il perdono di Dio per giustificare il peccato, il diritto canonico è servito solo alle carriere, alla prepotenza e all’opportunismo. Viceversa, quando i credenti hanno denunciato le incoerenze e si sono fatti carico dei conflitti, il diritto canonico ha sostenuto la fatica di stare responsabilmente nel mondo e nella Chiesa. È stato infatti necessario un umile lavoro di tessitura per dare unità a un codice in cui coesistono residui assolutistici e spazi di libertà, garanzie procedurali e deleghe in bianco, autonomie e centralismo. In cui la peculiarità di un diritto religioso dalle fondamenta antiche coabita con le conquiste moderne del diritto laico.
Trent’anni dopo il 25 gennaio 1983, il lavoro di interpretazione e ulteriore riforma del diritto canonico, dentro e fuori il codice, è lungi dall’essere concluso. Di fronte alla crisi della pedofilia ecclesiastica, molti credenti hanno invocato chiarezza e confronto sui fallimenti canonistici e teologici. La timida riforma curiale delle norme su pene e procedure ha soddisfatto solo i superficiali. Il divario è aumentato tra, da un lato, credenti e comunità che domandano trasparenza e rigore, in ciò esigendo un migliore diritto della Chiesa, e chi invece, dall’altro, manovra le norme per preservare l’intoccabilità di individui, clan e movimenti.
La scienza del diritto canonico ha avuto un ruolo cruciale nel preparare il codice del 1983 e nell’accompagnarne l’applicazione. Tra canonisti d’ogni Paese, hanno avuto gran parte gli italiani: gli uomini di curia, gli esperti delle università pontificie, i maestri delle facoltà giuridiche italiane. Il compito dei canonisti non è certo meno decisivo oggi, di fronte ad un cattolicesimo diviso in isole teologiche, culturali, territoriali e politiche, unite solo in apparenza dall’efficacia post-moderna dei leader carismatici, dei riti di massa, della mediatizzazione di Dio e del consumismo religioso.
Cade millesettecento anni dopo l’editto costantiniano del 313, l’anniversario del codice del 1983, e il nodo del rapporto tra religione e politica, tra potere sacro e profano, è ancora il più delicato. Si può amare o odiare la Chiesa, e il suo diritto canonico, perché tesi al servizio della coscienza e della comunità, in un mondo che è tutto potere, o perché monumento all’autorità e all’ordine, in un mondo dove regna il caos. Si può amare o odiare il diritto canonico perché pone un limite ai governi, perché resiste all’onnipotenza dei sovrani e dei potenti, oppure perché la Chiesa, come si dolse Pasolini, «è lo spietato cuore dello Stato».
Marco Ventura