Edoardo Sassi, la Lettura (Corriere della Sera) 20/01/2013, 20 gennaio 2013
ANCHE LA REGINA IMPEGNO’ LE GIOIE
Nella vita reale, diversa da quella delle favole, succede anche alle regine, almeno a quelle del passato, di trovarsi in ristrettezze economiche e di impegnare i gioielli di famiglia in cambio di denaro contante. È quanto accadde anche alla «povera» Cristina di Svezia, sovrana mecenate, la quale, dopo aver regnato sul suo Paese per quattro anni con pieni poteri, abdicò al trono nel 1654 e si trasferì a Roma dopo una clamorosa conversione al cattolicesimo che all’epoca fece scandalo, essendo lei, Cristina, l’unica figlia sopravvissuta e legittima di re Gustavo II Adolfo, alfiere del protestantesimo nella guerra dei Trent’anni.
Sostenitrice di opere di carità, promotrice di musicisti, letterati, artisti, sodale di tanti architetti del Barocco e personalità anticonformista al centro della Roma del tardo Seicento, anche la regina senza regno nel suo palazzo di via della Lungara a Trastevere si vide a un certo punto costretta a chiedere un prestito, accordato nella misura di ventimila scudi all’illustrissima sovrana ma dietro garanzia di preziosi. E l’Instrumento di concessione di un prestito su pegno di gioie alla regina Cristina di Svezia, datato 17 luglio 1660, è uno dei tanti documenti in mostra da febbraio nella sede della Fondazione Roma, che nel 2010 ha acquisito da Unicredit, dopo lungo iter burocratico, una cospicua documentazione sedimentata nel corso di cinque secoli, dal Cinquecento al Novecento, e proveniente da due istituti di credito romani: il Sacro Monte della Pietà, voluto dai francescani e fondato da papa Paolo III Farnese, e la Cassa di Risparmio, poi fusi dal 1936.
Cinquecento anni di carte, in buona parte inedite e ancora da studiare, vera miniera che sta già riservando sorprese agli studiosi. L’accesso all’archivio sarà libero, con richiesta da effettuare tramite il sito della Fondazione (www.fondazioneroma.it) e da girare alla Soprintendenza archivistica per il Lazio. Ma anche al semplice visitatore e alle scuole (vari istituti hanno già fatto richiesta) si apriranno le porte del pianterreno di Palazzo Sciarra, su via del Corso, dove si trova l’Archivio storico della Fondazione Roma, con tanto di biblioteca e sala espositiva aperta al pubblico dalle 9 alle 13, in modo da consentire a tutti, storici o semplici appassionati, di conoscere radici e sviluppo di questa immane impresa filantropica nata in origine per contrastare il fenomeno dilagante dell’usura e che da allora ha attraversato la storia e il costume della Città Eterna, con riflessi tanto sul linguaggio comune — a Roma, benché «il Monte» non esista più da anni, familiarmente ancora si usano espressioni tipo «impegnarsi qualcosa al Monte», «andare al Monte» — quanto sull’odonomastica. Nel cuore antico della città esistono infatti sia piazza del Monte di Pietà, sia piazza di Montevecchio, a due passi da quella via dei Coronari dove si trova il Palazzo Salimei, acquistato nel 1585 da papa Sisto V Peretti come prima sede del Sacro Monte, per questo definito in seguito «Monte Vecchio». Sarà Clemente VIII Aldobrandini, nel 1604, a decretare il trasferimento definitivo dell’istituzione nell’attuale piazza che porta il nome di «Monte di Pietà», in uno straordinario edificio barocco che ospita ora il Consiglio di Stato e alcuni uffici Unicredit dove ancora si effettuano crediti su pegno, con finanziamenti concessi a fronte della consegna di ori, argenti, preziosi.
Anche l’interessante percorso storico-architettonico-urbanistico è uno degli aspetti ricostruiti nella documentazione esposta in sala, ordinata cronologicamente e per temi in teche di legno e vetro partendo proprio dalla Bolla istitutiva del Sacro Monte di Pietà di Roma, Ad sacram Beati Petri sedem, emanata da Paolo III il 9 settembre 1539, vergata in gotica e provvista del sigillo plumbeo. Si prosegue con registri, planimetrie, brevi, chirografi, sentenze, testamenti, carteggi, libri contabili, monete bancarie e concessioni d’indulgenze. Esposte anche antiche bilance e altri strumenti di precisione o di laboratorio, oltre a macchine che raccontano le diverse tecniche di valutazione usate nelle varie epoche. Materiali solo apparentemente «aridi», ma che in realtà raccontano una storia comune a milioni di persone, le stesse che nel corso dei secoli hanno prima o poi avuto bisogno di impegnare qualcosa.
«In questo flusso archivistico — spiega il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele — sono rintracciabili le radici dell’istituzione che presiedo, perché in quello spirito assistenziale che segnò la nascita e le fasi evolutive dei due istituti creditizi, divenuti unica realtà nel Novecento, si ritrova la matrice dell’impulso filantropico della Fondazione. I fondatori della Cassa ad esempio rinunciarono espressamente ai profitti del denaro investito, che dovevano essere utilizzati unicamente a fini umanitari. Allo stesso modo i proventi della gestione finanziaria della Fondazione sono oggi destinati a scopi filantropici, istruzione, cultura, sanità, ricerca, assistenza ai deboli».
Storie di monete, di sistemi di credito e di povertà, certo. Ma non solo. I registri non riportano infatti i motivi per cui certi personaggi, non nati poveri, arrivassero a impegnare oggetti preziosi. Ma è sicuro che Cristina di Svezia, dopo che il credito fu esteso all’aristocrazia straniera per disposizioni di Alessandro VII Chigi e Clemente XII Corsini, fu in buona compagnia. A ricorrere ai servigi della «banca del Papa» (così detta almeno fino al 1870) furono infatti almeno altri due aspiranti a un trono, come risulta da altrettante rubriche esposte: l’Instrumento di concessione di un prestito a Giacomo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra e Scozia (23 agosto 1745) e l’accredito di centomila scudi concessi nel 1732 a Luigi Sobieski, principe della corona di Polonia e primogenito di re Giovanni III.
Fatta salva la privacy, che per legge tutela documenti di questo tipo per settant’anni, tra i materiali esposti non mancano curiosità più recenti: come il biglietto di Francesco Crispi, con lettera di accompagno, in cui si autorizza il disimpegno di sciabola e spade appartenute a Giuseppe Garibaldi (6 luglio 1882), o la missiva del 1948 con cui Vittorio De Sica, fedele ai dettami del nuovo cinema-verità, ringraziava i vertici dell’istituto per avergli permesso di girare nei locali del «Monte» alcune scene del film simbolo del neorealismo italiano, Ladri di biciclette, con la coppia protagonista che prova a «impegnare» le lenzuola del corredo nella Roma povera ma bella dell’immediato dopoguerra.
Edoardo Sassi