Viviana Mazza, la Lettura (Corriere della Sera) 20/01/2013, 20 gennaio 2013
CACCIA AL TESORO IN VERSI. NEL NEW MEXICO - A
nord della città di Santa Fe, da qualche parte tra i boschi e i ruscelli sulle Montagne Rocciose, c’è un tesoro nascosto. Monete d’oro, pepite dell’Alaska, anelli e bracciali tempestati di smeraldi e zaffiri, maschere di giada cinesi e tanti piccoli diamanti attendono, racchiusi in un forziere di bronzo, chi saprà decifrare i nove indizi contenuti in una mappa insolita: una poesia.
Migliaia di avventurieri hanno già tentato l’impresa sfidando acque insidiose, setacciando fondali fangosi fino a perdere il respiro, inseguendo le proprie ombre su terreni spaccati dalla calura estiva o rischiando di morire assiderati. Sconfitti. Tutti sono tornati a mani vuote.
Solo una persona sa dove si trovi il bottino: un collezionista texano col cappello da cowboy di nome Forrest Fenn. Lo sa perché è stato lui a nasconderlo. Cercare tesori è la sua passione da sempre, come racconta nell’autobiografia The Thrill of the Chase. Giunto alla fine della sua esistenza, l’eccentrico ottantaduenne voleva che il resto del mondo condividesse quell’eccitazione, il «brivido della caccia».
I capitoli della vita di Fenn sono un romanzo d’avventura, dalle 328 missioni da pilota pluridecorato in Vietnam alla decisione di creare una galleria d’arte in quella che quattrocento anni fa fu la capitale dei conquistadores, Santa Fe. La galleria è stata la sua fortuna. Frequentata da celebrità come Robert Redford, Jackie Kennedy e l’ex presidente Ford, sorvegliata dagli alligatori Beowulf ed Elvis («pessimi animali domestici — confessa — per nulla amorevoli e alquanto imprevedibili»), era una sorta di museo. Con la differenza che ogni cimelio recava un’etichetta col prezzo. Un misto di verità e finzione: storici reperti indiani sugli scaffali e alle pareti finti Modigliani e Monet del grande falsario Elmyr de Hory. Tante punte di freccia, anche. Quelle le collezionava sin da bambino.
Finché, diversi anni fa, i medici gli annunciarono che stava per morire. Cancro. Tre anni di vita al massimo. Era successo a suo padre, il quale — determinato a non farsi sconfiggere dalla malattia — a 83 anni inghiottì un mucchio di pillole ottenendo, con il suicidio, la sua vittoria. E il figlio, che aveva ammirato il coraggio di quella scelta, immaginò di imitarla. Durante una delle tante notti insonni, consumate nel sudore a stimare il tempo rimastogli, Forrest Fenn decise che non sarebbe morto in un letto d’ospedale. Si sarebbe incamminato nel deserto, sotto il braccio un forziere colmo di tesori. In quel mare di sabbia, rocce e cespugli rinsecchiti sarebbe scomparso e, un giorno, un intrepido esploratore avrebbe ritrovato le sue ossa. Piano perfetto, eccetto per un particolare: che è guarito.
Da allora molti inverni sono passati, regalandogli 59 anni di matrimonio con la fidanzatina del liceo Peggy e la gioia di diventare, sette volte, nonno. Ha venduto la galleria e si è comprato un vecchio pueblo, insieme al permesso di scavare nella proprietà in cerca di reperti. Ma continuava a ripensare a quell’idea di lasciare in eredità al mondo un mistero che avrebbe tenuto a lungo viva la sua memoria. E così, due anni fa, l’ha fatto davvero. Ha comprato un antico scrigno decorato da bassorilievi femminili, lo ha riempito d’oro e di gemme. L’ha mostrato ad un amico, per avere un testimone, e lo ha pure fotografato. Poi ha scelto un nascondiglio «difficile ma non impossibile» (dice lui) sulla catena montuosa che solca l’America per oltre quattromila chilometri, dal New Mexico al Canada. E per concludere, ha celato in 24 versi gli indizi che conducono alla fine dell’arcobaleno.
Ci sono stati anche episodi controversi, come un’inchiesta dell’Fbi che lo sospettava di aver rubato preziosi artefatti dei nativi del New Mexico da terreni federali (ma lui dice che da quattro anni gli agenti non si fanno vivi). E su «Newsweek» è rimbalzata la diceria che su di lui ci sia una maledizione indiana per aver razziato le loro tombe e turbato il sonno dei morti. Ecco, questo sì, lo fa arrabbiare. «Ho 82 anni. Ho avuto il cancro, con una probabilità di sopravvivere del 20 per cento: era il 1988 e sono ancora vivo. Mi hanno abbattuto due volte in Vietnam, ma sono tornato senza un graffio. Per 17 anni ho gestito un’azienda d’arte di grande successo a Santa Fe. Possiedo una casa, non ho mutuo, e pago anche per l’istruzione dei miei nipoti. Mi dica, le sembro maledetto?».
Se qualche scettico sospetta che questa storia del tesoro sia una grande beffa, migliaia di persone — almeno 6.416 contando soltanto le email finora ricevute da Forrest Fenn — ci hanno creduto e, dopo aver letto e riletto la poesia, si sono messe in cammino.
Bisogna iniziare dal punto in cui si fermano le «calde acque» (riferimento alle hot spring, sorgenti d’acqua calda di cui è ricca tutta la zona?). Poi, si procede «giù per il canyon», per recarsi «vicino, ma non a piedi» (in canoa?) fino ad una misteriosa «casa di Brown». A quel punto, non ci saranno «pagaie per affrontar le correnti, solo carichi gravi e acqua alta» (toccherà forse continuare a piedi, caricandosi tutto sulle spalle?). Si deve cercare un blaze, che in inglese può voler dire più cose: un’incisione su un legno o su una roccia? O forse i resti di un incendio? O ancora una macchia bianca sul muso di un cavallo? Di certo ci sarà un bosco, e bisogna prepararsi al freddo. «E attenzione — raccomanda l’autore — non ho mai detto di averlo seppellito, l’ho nascosto».
Molti gli scrivono per raccontare il percorso fatto. Qualcuno, dice il collezionista, è arrivato senza saperlo a 150 metri dal bottino. Lui immagina che a trovarlo possa essere un amante della natura che ha perso il lavoro e non ha più niente eccetto la moglie, cinque figli e un pickup. Ma in realtà alla caccia si sono unite anche mamme con un insospettabile spirito da Indiana Jones, e c’è una coppia di Chicago che ha provato 14 volte. Quando una donna s’è lamentata perché gli indizi sono ambigui, Forrest Fenn le ha concesso, a modo suo, un «aiutino»: il tesoro sta a più di 300 miglia a ovest di Toledo. «Chiunque lo trovi, avrà passato del tempo a riflettere profondamente, consultando qualche mappa, e ha abbastanza fegato da inseguire i propri sogni», dice. Ma se anche nessuno lo scovasse per un millennio, per lui non sarebbe un problema. «La stele di Rosetta è stata sottoterra per duemila anni prima d’essere rinvenuta. E nel forziere c’è una mia autobiografia, arrotolata e infilata in un barattolo d’olive per proteggerla dall’umidità. Voglio che chi lo trova sappia chi è il matto che ha abbandonato quel patrimonio».
Tante persone, comunque, gli mandano due righe solo per ringraziare: famiglie felici d’essersi scollate dal divano per fare una scampagnata all’aperto, padri assenti che hanno riscoperto nel verde il rapporto coi figli. Il texano dagli occhi blu che cita come libro preferito l’ottocentesco Diario di un cacciatore di pelli (Osborne Russell) e chiama le Montagne Rocciose «la mia chiesa», consiglia di portarsi il pranzo, e di farsi anche una birra. «Non c’è niente come sedersi sotto un alto pino e, semplicemente, osservare... contemplare. Ho passato ore ed ore a guardare la messa in scena della natura, gli scoiattoli che scorrazzano, le aquile e gli sparvieri alla ricerca di cibo, le formiche indaffarate tra le foglie».
Come dire che il vero obiettivo è «la caccia e non la preda», è specchiarsi nell’immenso e mutevole cielo del West per scoprire dentro di sé un desiderio d’avventura ch’era solo sopito. Ma è difficile non leggere, in ogni sua parola, un indizio. Impossibile dimenticare che quel tesoro è ancora là fuori.
Viviana Mazza