Danilo Taino, la Lettura (Corriere della Sera) 20/01/2013, 20 gennaio 2013
IL POTERE DEL GEOGRAFICAMENTE PICCOLO
Tra i dieci Paesi più ricchi del mondo (classifica «Forbes» 2012), l’unico di grandi dimensioni è l’America: al settimo posto, con un reddito pro capite di 46.860 dollari. Gli altri nove sono piccoli o piccolissimi. Alcuni, come il Qatar che è al primo posto, devono la loro fortuna a petrolio e gas. Ma per Olanda, Svizzera, il territorio di Hong Kong, Norvegia, Singapore, Lussemburgo, la ricchezza deriva da altri fattori (la Norvegia è una combinazione rara di buongoverno e risorse naturali). Vista da un’angolatura diversa: tra i cinque Paesi più grandi per popolazione — Cina, India, Stati Uniti, Indonesia e Brasile —, solo gli Usa sono ricchi. Vorrà dire qualcosa. Potrebbe anzi volere dire molto: se si provasse una relazione inversa tra la dimensione di un Paese e la sua prosperità, molte certezze che si danno per scontate risulterebbero false. Certe volte il mondo cammina a testa in giù. Per esempio: uno degli architravi argomentativi alla base dell’Eurozona — cioè che nel mondo globalizzato occorre essere grandi per competere, pena il declino economico — vacillerebbe. Non solo: la dimensione di un Paese è spesso correlata al suo grado di apertura e addirittura di propensione democratica.
Aristotele (Politica) sosteneva che «è difficile, se non impossibile, che uno Stato popoloso sia governato da buone leggi». Per lui, la dimensione ideale corrispondeva a una comunità nella quale tutti conoscono tutti. Per Platone (Leggi) la misura esatta per il buongoverno era 5.040 famiglie, numero che consente suddivisioni organizzative precise. E delle «giuste» dimensioni dello Stato, si interessò a lungo Montesquieu, che ne temeva l’eccessiva grandezza. Anche i Padri Fondatori degli Stati Uniti ne discussero in profondità: James Madison, in particolare, condusse una battaglia a favore di una repubblica ampia ed eterogenea, che a suo avviso avrebbe ridotto i pericoli di tirannia dovuti al «sentimento comune» che caratterizza le piccole comunità. La questione, dunque, è tutt’altro che nuova e riguarda il modo stesso di essere dello Stato e della convivenza. Ma non è per nulla risolta, nel senso che non esiste una teoria definitiva degli effetti di uno Stato grande o piccolo sulla democrazia e sull’economia. Ciò nonostante, miti non provati — come appunto la necessità di essere grandi per competere e prosperare al giorno d’oggi — resistono e sono raramente sfidati.
Madison aveva argomenti seri per sostenere la bontà di una federazione ampia e diversificata, vivace al proprio interno, dove idee e interessi differenti si confrontassero. Meno di cent’anni dopo, la guerra civile mise a dura prova le sue teorie, ma certo oggi possiamo dire che gli Stati Uniti sono un Paese di grandi dimensioni e di successo, democratico e con un benessere diffuso. Ma per molti versi sono l’eccezione. Alberto Alesina, professore alla Harvard University, ha condotto ampi studi sulla dimensione ottimale dei Paesi e, tra l’altro, ha notato due cose interessanti nel rapporto tra grandezza e democrazia. Primo, «i dittatori preferiscono grandi imperi a Paesi piccoli, perché possono estrarre rendite totali maggiori da popolazioni più grandi»: non cercano, cioè, una dimensione statuale che massimizzi i benefici economici per la popolazione, ma tendono a espandersi fino al limite di rottura. Il che dà una connotazione non propriamente democratica alla tendenza verso la grande dimensione e soprattutto indica che «democratizzazione e secessioni dovrebbero progredire mano nella mano». Secondo, ha notato che nel periodo tra le due guerre mondiali del secolo scorso, un periodo di totalitarismi, non fu creato praticamente alcun nuovo Stato, benché le aspirazioni nazionaliste fossero forti un po’ in tutto il mondo. In compenso, nei cinquant’anni seguiti alla Seconda guerra mondiale, periodo di apertura e di democrazia, il numero dei nuovi Paesi indipendenti è quasi triplicato. La fine del totalitarismo sovietico ha coinciso con la rottura del grande Stato e la creazione di entità più piccole, non automaticamente democratiche, ma di sicuro più aperte.
Se si passa all’economia, certamente la grande dimensione sembra dare vantaggi. Alesina ne elenca sei: economie di scala nella produzione di beni pubblici (difesa, sistema finanziario, polizia, sanità, numero di ambasciate e via dicendo); maggiore capacità di difendersi da aggressioni esterne; centralizzazione di politiche come quelle sulla riduzione delle emissioni di gas serra; possibilità di mitigare, attraverso trasferimenti, le crisi regionali; capacità di aiutare le regioni più povere; un mercato interno più grande. Non sempre tutto funziona bene, ma in genere è così, se si considerano i Paesi come entità chiuse e isolate. Le cose cambiano però nella realtà, soprattutto quando i mercati sono aperti e il commercio internazionale ha pochi ostacoli. Il vantaggio di essere grandi, sottolinea Alesina, «diminuisce con l’integrazione delle economie». Detto diversamente: i Paesi piccoli beneficiano più di quelli grandi della caduta delle barriere al commercio mondiale, avendo un mercato interno piccolo. «L’integrazione economica è andata mano nella mano con la disintegrazione politica», secondo il professore di Harvard. Nella globalizzazione, insomma, la dimensione statuale conta meno che nell’autarchia: il contrario del sostenere che l’Eurozona (sempre più integrata) si giustifica con il dovere competere nel mercato internazionale.
Rispetto a un’entità grande, un Paese piccolo ha anzi vantaggi in termini di vicinanza, di maggiore omogeneità culturali ed etniche che aiutano le politiche di solidarietà, di democrazia più articolata e legata ai cittadini. E, grazie alla globalizzazione, può operare su mercati molto vasti, più di quelli che avrebbe se fosse di dimensioni maggiori, ma chiuso in una sorta di autarchia. In Europa, ciò dovrebbe significare un mercato sempre più integrato (la cui creazione è invece ferma da tempo); la ricerca di economie di scala nella produzione di beni pubblici (che non c’è); una difesa comune (che manca); trasferimenti verso le regioni povere (in stallo dopo lo scoppio della crisi del debito). Non dovrebbe invece significare — sempre secondo questa lettura — politiche sociali e fiscali centralizzate (che invece tendono a crescere). Preso dal punto di vista dei costi e dei benefici — economici ma anche di democrazia —, non è affatto dimostrato, anzi, che un’Europa sempre più «profonda», politicamente integrata e quindi «grande», sia da preferire a tante entità statuali, integrate laddove ciò crea benefici ma indipendenti laddove ciò ne crea altri. Viene il sospetto che la competitività non soddisfacente del Vecchio Continente sia anche legata al malinteso della dimensione — non ottimale — che sostituisce una logica muscolare e tutta politica a una razionale. Anche l’idea di fare l’euro per avere una grande valuta di riserva, con benefici simili a quelli che il dollaro porta all’America, non sembra essere stata del tutto realistica.
Di fronte alla Catalogna che potrebbe separarsi dalla Spagna, alla Scozia che voterà sulla secessione dal Regno Unito, alla crisi istituzionale del Belgio che potrebbe spaccarsi in due, non c’è insomma un modo unico per stabilire se questi eventi possano essere un bene o un male. Allo stesso modo, il timore che la Germania si disamori dell’Europa e vada da sola non è per nulla attuale, ma non può essere eliminato dalla lista delle possibilità, se l’Europa dovesse dimostrarsi per Berlino più una palla al piede che un vantaggio: in fondo, la Corea del Sud, il Canada, l’Australia, lo stesso Giappone e molti altri Paesi non sono giganti; eppure nell’economia globale prosperano. È che i confini non sono mai per sempre.
Danilo Taino