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 2013  gennaio 20 Domenica calendario

LA DITTATURA DEL CARINO

Puoi fare il giro più largo, perderti per ore tra scaffali e biblioteche, ma alla fine la risposta che cercavi ti attende sempre lì, nelle strisce di Charlie Brown. La scena è questa: Schroeder, il biondino con il culto di Beethoven, è chino sul suo pianoforte a coda giocattolo; Lucy, la tirannica sorella maggiore di Linus che lo corteggia senza dargli pace, è appollaiata all’altro capo del piano, e legge una descrizione del compositore da ragazzo: spalle larghe, collo corto, testa grossa, naso carnoso… «Ha l’aria carina», commenta. Schroeder lancia uno di quegli urli cubitali che nei fumetti di Schulz mandano i bambini a gambe all’aria: «Beethoven non era carino!».
Saranno pure Peanuts, o noccioline, insomma le nugae dei latini; eppure ecco messo in scena, in forma di battibecco galante, il grande conflitto estetico del nostro tempo. Il kantiano Schroeder difende le tradizionali categorie del bello e del sublime, le sole che gli appaiano degne di Beethoven; Lucy incarna lo spirito dell’estetica pop, dove uno scarmigliato musicista romantico può essere trattato come Hello Kitty, dove la Nona è fischiettabile come un jingle, dove insomma è il carino a regnare sul gusto. «L’amore del Bello è odio del Carino», si legge nell’Eva futura di Villiers de l’Isle-Adam, e sarebbe il motto ideale in calce alla vignetta di Schulz (o viceversa).
Ma il carino non regna solitario. Sianne Ngai, una anglista dell’università di Stanford, ha appena dedicato un libro alle categorie estetiche che dominano la sensibilità corrente, Our Aesthetic Categories: Zany, Cute, Interesting (Harvard University Press). Accanto al carino — il cute — ci sono dunque l’interessante e lo zany, qualcosa che sta tra il buffo, l’istrionesco e il bizzarro.
Sono categorie minori, ma non per questo marginali; semmai, dice Ngai, triviali, tipiche di una cultura dove sono crollati gli argini tra arte e consumo, arte e design, arte e vita quotidiana, tra la hegeliana «domenica della vita» e la prosa dei giorni feriali, e dove è sempre più difficile, per l’estetica, fare provincia a sé e rivendicare confini certi. Va detto che Ngai si muove sul terreno un po’ nebbioso dei cultural studies statunitensi, e che le sue intuizioni risplendono sotto incrostazioni di gerghi — dal postmodernismo al marxismo accademico ai gender studies — che si ha una certa pena a grattar via. Ma la materia che maneggia è così viva, le questioni a cui si accosta così centrali, che non si rimpiange la fatica.
Il carino, l’interessante e il bizzarro sono la moneta corrente spesa nelle conversazioni, nei giudizi informali, nelle chiacchiere del dopo mostra o del dopo film, ma anche il puntello delle recensioni e della critica d’occasione, che ha sempre bisogno di un carnet di aggettivi-tappabuchi. Hanno spodestato silenziosamente il bello e il sublime, che pure conservano, nelle loro roccaforti, il severo prestigio dei monarchi decaduti. Ma queste creaturine dall’aria così dimessa, così mite — e non c’è bisogno di rievocare i grandi archetipi del barboncino inferocito o del neonato urlante — viste da vicino sono tutt’altro che innocue. Il carino, per esempio, è letale. È la forbice capace di spuntare le unghie al più selvatico dei felini, lo strumento di una regressione al crepuscolarismo bamboleggiante, la trasfigurazione del mondo in peluche. Ngai ne parla come di una via per spadroneggiare esteticamente sulla debolezza, mescolanza ambivalente di tenerezza e sadismo (e per inciso, Fruttero e Lucentini hanno scritto grandi cose sul lato oscuro del carino, categoria ignota agli antichi, e sul nesso occulto tra Shirley Temple e Adolf Hitler, «il mostruoso dittatore urlante» e «la mostruosa frugoletta che canta le sue canzoncine»).
E poi, a pensarci bene, è un giudizio positivo o negativo? Siamo autorizzati a risentirci se ce lo affibbiano? È un dono avvelenato, un cavallo di Troia? Non è chiaro, ma potete cercare una prima risposta nello sguardo da potenziale squartatore che un giovanissimo Nanni Moretti, in un dibattito televisivo, lanciò a Mario Monicelli che aveva appena definito Io sono un autarchico un «film carino». Lo stesso vale per «interessante», il più anemico dei giudizi, che può essere usato facilmente come sinonimo appena mascherato del suo contrario, e che non si sa bene se designi una reazione assente, affievolita, tutta cerebrale o così perplessa da restare indefinibile. Ne va che il giovane romanziere elogiato per il suo «esordio interessante» dovrebbe fare la stessa faccia interdetta della ragazzina che si sente etichettare come «un tipo».
Ma c’è un tratto comune alle categorie di Ngai su cui si dovrebbe ragionare un poco: la freddezza, o se vogliamo la coolness, che è anche padronanza di sé. «Chi può vivere tra fiamme perenni?», chiedeva l’antico profeta. Il carino, l’interessante, il buffo riflettono al fondo esperienze estetiche mezzo soffocate, crepitanti appena sotto uno strato di cenere. Il Beethoven sublime di Schroeder incombe dall’alto e ti fa tremare, il Beethoven carino di Lucy è una bestiola addomesticata in grembo. E già che le risposte, a cercarle bene, sono tutte nei Peanuts, vien voglia di rovesciare i termini di quel vecchio dibattito sulla secolarizzazione dell’esperienza estetica e sullo spettatore che si riscuote dalla soggezione religiosa verso l’opera d’arte. Al contrario, c’è qui il segno di una soggezione più grande, di un timore reverenziale che diventa timor panico e richiede in tutta fretta uno scongiuro, una scappatoia scaramantica.
Diceva William Carlos Williams che gli uomini temono la bellezza più che la morte. Non è da escludere che il carino, l’interessante e i loro tiepidi parenti siano gli strumenti di un esorcismo: basta pronunciare quelle formule di rito e il sortilegio dell’arte non è più minaccioso. Dov’è, Bellezza, il tuo pungiglione? Altro modo per dire che la nostra estetica potrebbe essere, in fin dei conti, un’anestetica: una scienza non già del sentire, ma del non sentire. O del sentire il meno possibile.
Guido Vitiello