Stefano Bucci, Corriere della Sera 20/01/2013, 20 gennaio 2013
NINO MIGLIORI. FURORI SPERIMENTALI
Perché la vita, in fondo, non può giocarsi tutta in un tuffo, anche se poi quello stesso tuffo (una variazione ideale in forma di foto del Tuffatore di Pompei) ti inchioda alla storia, ti trasforma in un simbolo del Millennio, al pari della prima impronta di Armstrong sulla Luna. Nino Migliori, ottantasette anni, con il suo non-voler essere (da sempre) protagonista è la dimostrazione che «non si può continuare tutta la vita a ripetersi». E così Migliori (bolognese doc, maestro della fotografia, certo, ma anche sperimentatore incallito) preferisce sempre, tra gli artisti, quelli che hanno sempre saputo sorprendere, che non sono rimasti a fare per tutta la vita tagli su una tela». Un nome su tutti? Naturalmente Picasso.
Forse proprio per sorprendere che Migliori sembra sempre giocare sulla difensiva, anche ora che questa antologica di Palazzo Fava (dopo la retrospettiva milanese allo spazio Forma) lo ha costretto a mettersi definitivamente in mostra. Certo, comunque, Nino ci prova a svicolare. Innanzitutto con quella sua aria gentile, educata, comunque semplice con cui ti accoglie nel suo studio, insieme a Marina (un’ombra ironica e attenta, che lo segue passo dopo passo) e alla storica assistente Annamaria: una vecchia fabbrica di corde, alla periferia della città, «dove abbiamo messo insieme quattro piccoli studi». Come lavoro? «Mi guardo attorno, cerco sempre qualcosa di nuovo». O anche, tanto per citare il quasi-conterraneo Pascoli, «di antico» (tra i suoi lavori più recenti c’è una serie di scatti dedicati alle sculture del Duomo di Parma «fotografate a lume di candela»). Sia che si trattasse di quella tradizione legata alla Gente d’Emilia, al mondo del Delta del Po, a quello del Sud («Ho sempre preferito i paesi, perché sono sempre piccoli grandi mondi dove si nasconde di tutto»). Sia che si trattasse di una ricerca fatta di Cancellazioni, di Stenopeogrammi o di Segnificazioni o di installazioni affascinante come l’Elegia della Carne ispirata alla Bottega del Macellaio di Carracci. «Ho cambiato tanti stili? Sono primo di tutto un curioso e considero davvero poco la mia arte».
Sarà vero? Perché no? Difficile non associare Migliori all’idea di schiettezza (in un passaggio dalla mostra allo studio, il tassista minaccia anche di non farlo più scendere «perché troppo simpatico»): lo stesso studio in fondo lo dimostra. Un’affascinante serie di spazi dove sono assemblati tutti i passaggi di una vita artistica: l’orso (enorme) di pelouche su cui ha sperimentato nuovi metodi di colorazione; i barattoli dell’Amarena Fabbri (a suo tempo trasformati in un’installazione); divani e poltrone (bellissimi) «comprati all’asta e che vengono da un vecchio ufficio postale». Oltre ad aggeggi vari di ogni genere, dalle insegne di vecchi negozi di abbigliamento alle bottiglie di plastica di ogni colore, schiacciate e lavorate fino a trasformarle in qualcosa di nuovo. E ancora una volta di antico: «Li ha riconosciuti — chiede indicando una serie di quelle bottiglie appoggiate su uno scaffale di legno nello studio —? Sono i personaggi del Compianto di Nicolò dell’Arca. Un capolavoro».
A proposito. Naturalmente Il tuffatore (anno 1951) c’è: «Come è nata questa foto? Sul molo di Rimini, dove c’erano tanti ragazzi che facevano a gara a tuffarsi. Ho aspettato e ho scattato («Senza ritocco, guardi il negativo...»). Cosa si sente quando nasce una foto come questa («Due metri è la distanza giusta per guardarla, almeno qui»)? «È come se si sentisse un campanello». Chi sono quei due ragazzi? «Due fratelli, ma non ho mai saputo i loro nomi». Anzi, chiarisce la moglie Marina, «ad un certo punto, i giornali hanno cominciato a fare appelli per trovarli, sono arrivati in tantissimi, qualcuno ha persino litigato». D’altra parte, quello fermato nel Tuffatore è un vero e proprio sentimento del tempo: «L’Italia dopo la guerra, l’Italia che ricominciava a vivere, l’Italia dei giovani che volevano conoscere il mondo». E, magari, persino cambiarlo.
Ma in fondo, pur nella sua bellezza, Il Tuffatore non è tutta la vita di Nino: «non ho mai fatto il fotografo di professione, mi mantenevo facendo un altro lavoro, così potevo dedicarmi alla mia arte». E così dice ancora con orgoglio, lo stesso orgoglio con cui esibisce il suo nuovo apparecchio acustico di ultima generazione. «All’inizio lavoravo in un’azienda (quella di famiglia, ndr) che faceva liquori, mi occupavo del commerciale». E i suoi amici artisti? «Vedova e Tancredi. Mi ricordo quando, a casa di Peggy Guggenheim a Venezia, abbiamo visto per la prima volta i quadri di Pollock. Che emozione!». Magari la stessa emozione che ha provato davanti a Cartier-Bresson o a Klein (mentre chissà se i celebrati Chapman Brothers proverebbero forse qualche brivido di invidia davanti ai soldatini di Make love not war che Nino aveva creato già nel 1973 e che ricordano molto da vicino certa bad art dei Chapman ma negli anni post-Duemila).
«Il mio mondo è grande due metri per due, quanto il mio laboratorio», conclude Nino. Si è fatta quasi ora di pranzo, nel suo studio alla periferia di Bologna, o almeno è tempo di un aperitivo. E così, invece di parlare dei suoi progetti (come quello su «una serie sui cimiteri, ma coloratissimi, quasi Pop») si finisce tutti davanti a uno spritz («ma alla veneta, Campari e Prosecco») con tanto di parmigiano, crackers. Perché la vita non può giocarsi tutta solo in una fotografia. Anche se è un capolavoro come Il Tuffatore di Migliori.
Stefano Bucci