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 2013  gennaio 20 Domenica calendario

SVOLTA DI MONTI SUL LAVORO —

La domanda è una sola. Semplice. Perché ha deciso di «salire in politica»? Quali sono le vere ragioni di una scelta che chi scrive, pur conoscendola da molto tempo, mai avrebbe immaginato? Monti fa un grande sospiro. Siamo nel suo ufficio a Palazzo Chigi, in una piovosa mattinata romana. «Credo di aver fatto una cosa giusta, non quella più utile per me». Il racconto del presidente suddivide il suo periodo di governo in due parti. La prima, la più drammatica, con l’incubo quotidiano di restare senza i soldi per pagare gli stipendi pubblici («Quando incontravo Angela Merkel sapeva esattamente quanti titoli di Stato avevamo bisogno di vendere»). Poi i primi risultati, l’emergenza che si allontana. «Allora, pensavo che, dopo aver contribuito a salvare il Paese, restando al di sopra delle parti avrei svolto tranquillamente le mie funzioni di senatore a vita, in attesa che qualcuno, forse, mi chiamasse».
E invece no. «A un certo punto, con l’avvicinarsi delle elezioni, le riforme incontravano ostacoli crescenti, erano sempre più figlie di nessuno. La strana maggioranza cambiava pelle sotto i miei occhi. Il Pdl ritornava ad accarezzare l’ipotesi di un nuovo patto con la Lega, non con il Centro, ed emergeva un fronte populista e antieuropeo; il Pd alleandosi esclusivamente con Sel riscopriva posizioni radicali e massimaliste in un rapporto più stretto con la sola Cgil». E che altro poteva aspettarsi, professore? Che i partiti si suicidassero tutti sull’altare del rigore? «Ho intravisto due rischi. Uno a breve, che il governo cadesse prima che i partiti si accordassero finalmente su una riforma elettorale; uno più a lungo termine, e assai più grave, ovvero che sei mesi dopo le elezioni si dissipassero tutti i sacrifici che gli italiani avevano fatto, con grande senso di responsabilità, per sottrarre il Paese a un sicuro fallimento. Tutto inutile, pensavo. Sarebbero tornati al governo i vecchi partiti, i vecchi apparati di potere, veri responsabili del declino dell’Italia. In quello stesso periodo si erano poi moltiplicati gli incoraggiamenti di molti leader europei e internazionali, da Barack Obama a François Hollande, che però — chiarisco subito — non sono stati determinanti». Nemmeno l’incoraggiamento del Papa? «Non trasciniamo il Santo Padre nelle nostre vicende così terrene...». L’appoggio della Chiesa? «Gli auspici sono stati autorevoli, ma sono anche venuti da espressioni più semplici, parroci per esempio. Il mondo cattolico è articolato e composito. Va ascoltato e rispettato, non strumentalizzato». Il Partito popolare europeo? «Una scelta di campo significativa, soprattutto se si tiene conto che non appartengo a nessun partito, mentre il Pdl di Berlusconi è uno dei partiti più grandi nel Ppe».
Insomma, alla fine il dado è stato tratto. «È cambiata in me la percezione di che cosa sarebbe stato moralmente più giusto. Un amico milanese, che lei conosce bene, direttore, ma di cui non le dirò il nome, mi disse in un lungo colloquio che con il passare del tempo la bilancia delle valutazioni morali, dentro di me, sarebbe cambiata. Avrebbe pesato meno il piatto di ciò che io ritenevo in linea con il mio stile, di persona al di sopra delle parti; sarebbe invece aumentato il peso del senso del dovere, il dovere di fare in modo che i sacrifici che avevo dovuto chiedere agli italiani per salvare il Paese non venissero dissipati e costituissero invece la base di un’Italia più solida, capace di tornare a crescere, dopo tanti anni». La bilancia si è mossa e lei, professore, ha fatto il gran passo. Una scelta immorale, secondo D’Alema. «Ma sarebbe stato immorale se io avessi pensato a me stesso, non trova? Gratificazioni di prestigio non sarebbero mancate. Così, invece, rischio tutto». Il presidente della Repubblica non ha apprezzato. (Lungo silenzio). «Credo di averlo sorpreso, questo sì, ma penso che oggi abbia compreso le ragioni della mia scelta. Veda, il nostro è un rapporto di reciproca e profonda stima, e di grande riconoscenza da parte mia. Ma anche di pudore sui nostri personali sentimenti. Quando cominciai a dirgli che sentivo qualcosa cambiare in me, non mi sconsigliò, mi diede ascolto...».
La linea di confine fra l’immagine del tecnico super partes e del politico necessariamente «in erba», viene tracciata dalla sua conferenza stampa del 23 dicembre, poi dalla cosiddetta Agenda, con la quale nasce un nuovo soggetto politico, Scelta Civica, una lista che si apre alla società civile per farla finita con la vecchia politica, giusto? «Sì, e sa qual è stata l’altra considerazione di fondo che mi ha spinto a salire in politica?». Quale, presidente? «Anche dopo aver celebrato il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, questo Paese continua ad avere bisogno di essere unificato. Oggi, più di qualche decennio fa, sembriamo a volte non un Paese, con un senso del bene comune, ma quasi un insieme di tribù, di corporazioni, di fortini intenti a difendere interessi di parte, di incrostazioni clientelari. La mia iniziativa politica è stata sollecitata dalla società civile. E alla società civile io mi rivolgo, noi ci rivolgiamo. La risposta si sta rivelando straordinaria». E vi siete alleati con Casini e Fini che nella politica tradizionale hanno sguazzato per anni, mah… «Certo, può apparire una contraddizione, ma entrambi hanno avuto il merito di vedere per tempo quali guasti producesse un bipolarismo incompiuto e conflittuale. E nell’ultimo anno sono stati più disponibili del Pdl e del Pd a sostenere anche i provvedimenti sgraditi agli ambiti sociali a loro vicini. Infine, hanno accettato di sottoporre anche le loro liste ai criteri più esigenti da me richiesti. Quanto alla nostra lista per la Camera, Scelta Civica, faccio notare che è la prima volta che viene proposta agli elettori, su base nazionale, una formazione che non include alcun ex parlamentare, ma solo esponenti di valore del volontariato, del mondo dei lavoratori dipendenti, delle professioni, dell’associazionismo, dell’imprenditoria, della scienza, gente capace, persone che hanno scelto di rischiare, con coraggio e avendo fatto rinunce significative. Quanti colloqui, quante telefonate, quanti dubbi, quante crisi di coscienza. Ma quanta gioia, mi ha dato fare questa esperienza di mobilitazione! Li ringrazio tutti perché dimostrano una cosa importante, vitale». Quale? «Un’altra delle ragioni della scelta che anch’io ho fatto. Un tempo potevamo dire: io aiuto il mio Paese facendo bene e con onestà il mio mestiere, la mia parte. Oggi non basta più. Se non ci impegniamo direttamente, se non sacrifichiamo qualcosa di personale, questo Paese non avrà futuro e su di noi cadrà una colpa grave. Una colpa che non avrà prescrizione».
Presidente, Berlusconi dice che nessuno, dopo Mussolini, ha avuto tanti poteri come lei. «È evidente l’improponibilità storica del paragone. Ogni provvedimento proposto dal mio governo si avviava verso le Camere in perfetta solitudine. Zero deputati, zero senatori (o uno, il sottoscritto). Il mio governo partiva sempre da zero, doveva convincere volta per volta una maggioranza chiamata a decidere spesso qualcosa di contrario alla natura dei partiti che la componevano, ma necessario per salvare l’Italia». E dunque, ha ragione il Cavaliere a invocare riforme straordinarie che attribuiscano all’esecutivo maggiori prerogative? «La nostra è una repubblica parlamentare. Si può snellire la funzionalità del Parlamento, ma è soprattutto la composizione politica del Parlamento che va cambiata, con le elezioni, se vogliamo che vi siedano persone con la cultura del cambiamento e non della conservazione, delle riforme e non delle clientele». Ma non le conveniva, sul piano più squisitamente politico, accettare l’offerta di essere lei il federatore dei moderati, sotto l’egida del Partito popolare europeo? «Io apprezzai molto quell’offerta di Berlusconi. Ma gli dissi subito che, se mai, all’Italia sarebbe occorso un federatore dei riformisti, finora domiciliati in tre poli diversi e perciò incapaci di dare un maggiore impulso alle riforme di cui il Paese, i giovani hanno bisogno. È quello che ora mi propongo di fare». Le sollecitazioni e le offerte di attuali parlamentari sono state numerose? «Sì, sia dal Pdl che dal Pd, molti deputati, senatori e parlamentari europei sono venuti a dirmi: vorrei stare con lei, sono pronto. In alcuni casi non è stato possibile trovare una piena convergenza, in molti altri sì».
La Banca d’Italia, nel suo bollettino, afferma — e certo questo può essere letto anche come una critica autorevole e circostanziata al governo dei tecnici — che gli effetti dell’austerity sul prodotto interno lordo, previsto in calo dell’1 per cento anche quest’anno, sono maggiori del previsto. Il rigore non è una dieta. Per molte imprese, specie quelle piccole, e per tante famiglie, assomiglia a un drammatico digiuno. «Noi stiamo vedendo, al contrario, qualche risultato positivo grazie al sacrificio degli italiani: sui tassi d’interesse, sulle esportazioni, sull’andamento dei titoli pubblici. E dobbiamo sempre chiederci che cosa sarebbe accaduto se quelle decisioni non fossero state prese e se ci fossimo trovati nei panni dei greci. La Banca d’Italia non credo sostenga che bisognasse fare meno risanamento. Ma più riforme strutturali. Ha ragione. È anche per questo che oggi a Bergamo dirò che non possiamo rimettere l’Italia nelle mani degli incapaci, che l’hanno portata al novembre 2011. La vecchia politica non deve tornare. Il governo tecnico non sarebbe stato chiamato se la gestione della cosa pubblica fosse stata nelle mani di politici capaci e credibili». Lei è ormai un ex tecnico, presidente, non lo dimentichi. «D’accordo. Oggi gli italiani hanno di fronte una straordinaria opportunità con una proposta politica seria e del tutto nuova». A voler essere precisi le novità sono diverse, compreso il Movimento 5 Stelle. L’ha mai conosciuto Grillo? «No, ma non avrei difficoltà ad incontrarlo. La sua discesa nei consensi credo abbia a che vedere con la nostra iniziativa. Scelta Civica pesca molto, e bene, fra gli indecisi o fra coloro che pensavano, sbagliando, di astenersi. Noi e Grillo siamo due espressioni differenti dell’insofferenza popolare. Iconografia della rabbia la sua, gestuale, vivace ma temo inconcludente. Seria, composta, con tante persone capaci, e ormai con esperienze di governo, in Italia e in Europa, la nostra».
A Bergamo verrà scritta, o meglio aggiornata, anche l’Agenda Monti. Il professore è riservato su questo punto. Ma il piatto forte sarà costituito da una nuova, e dalle indiscrezioni dirompente, proposta sul mercato del lavoro. L’idea di trasformare, all’insegna della flexicurity, ovvero flessibilità più sicurezza, all’inizio in forma sperimentale, i contratti precari in contratti a tempo indeterminato per i quali l’articolo 18, quello famoso sui licenziamenti, verrebbe sospeso almeno nei primi due o tre anni. Una riforma che prevederebbe anche il reddito minimo di cittadinanza. E una sicura collisione con il Pd e con la Cgil. Anche, chiedo al presidente una sconfessione della legge Fornero, o no? «Da lei, direttore, sto apprendendo molte cose. Varie persone stanno lavorando ad affinare l’Agenda. Per ora non c’è, su questa materia specifica, nessun orientamento deciso».
La nuova Agenda conterrà anche alcune proposte in tema di giustizia e una posizione più ferma sulla lotta alla corruzione, segno che la legge approvata si è rivelata del tutto insufficiente. «Una constatazione corretta». E la già annunciata riformulazione dell’Imu con beneficio dei piccoli proprietari.
Sul finire di questa lunga conversazione, chiedo al presidente del Consiglio e al leader di Scelta Civica se su liberalizzazioni, privatizzazioni e terapie antidebito non fosse, anche lì, il caso di fare di più. E la risposta è positiva. «Qualche timidezza da parte nostra, è probabile; e qualche ostacolo imprevisto in quel Parlamento che a dispetto dei voti di fiducia, si è rivelato piuttosto refrattario alle vere riforme». E se non sia il caso di parlare di più alla gente comune, alle famiglie, alle piccole imprese che non tirano la fine del mese e che esprimono una più che giustificata insofferenza. «Un governo che avesse di fronte a sé cinque anni e non l’ultimo anno di una legislatura; un governo che nascesse in una situazione finanziaria tranquilla e non nell’allarme rosso, potrebbe e dovrebbe permettersi una ben maggiore attenzione al sociale. Nel novembre 2011 era diverso. Bisognava mettere gli italiani di fronte a verità colpevolmente negate fino al giorno prima. I finti buoni li avrebbero portati al fondo del precipizio, dal quale ci siamo fortunatamente allontanati. Oggi possiamo guardare alla crescita con maggiore ottimismo ed è possibile parlare, senza alcuna incoerenza, di una graduale riduzione delle tasse. Con senso di responsabilità. Senza esagerare in promesse che non si possono mantenere».
(f. de b.)