Antonio Gnoli, la Repubblica 20/1/2013, 20 gennaio 2013
Ricordi di Carlo Giuffré, attore
SELEZIONAXX
Si coglie un senso di tristezza nella voce di Carlo Giuffrè quando rievoca Mariangela Melato: «Il minimo che possa fare è ricordarla stasera e dedicarle lo spettacolo. Era straordinaria. E non perché non c’è più, ma perché c’è ancora e continuerà ad esserci», dice. E nel dirlo l’attore sembra una stella fissa nel buio. Un sopravvissuto del cielo. Nel camerino si avverte un leggero odore di lavanda. Sulla toletta gli strumenti del trucco. Il grande specchio risucchia la figura asciutta dell’attore. Tra un po’ Giuffrè si preparerà per l’ultimo spettacolo romano di Questi fantasmi, la bellissima commedia di Eduardo De Filippo che da un paio di settimane fa il pieno all’Eliseo di Roma. Con una punta di compiacimento estrae da una busta bianca lettere e biglietti di ammirazione: legge qualche parola con la devozione di chi sente di essere stato, oltre che bravo, fortunato. C’è insieme qualcosa di patetico e sublime: l’attore che sfida il tempo, e si aggrappa alla zattera del suo pubblico.
È così importante il suo pubblico?
«Lo è per ogni attore di teatro. Non ci si abitua mai agli stimoli del pubblico. Non ci si abitua mai alle delusioni e ai complimenti. Ogni sera a teatro sento l’emozione della prima volta. C’è un momento, prima dello spettacolo, in cui non so se andrà bene o male».
Cosa significa la paura di non farcela?
«È la strizza. Ma se non ci fosse questa emozione, diceva Eduardo De Filippo, tutto finirebbe prima di incominciare. Poi, quando entro in scena tutti i dolori non li avverto più, tutti i pensieri cupi spariscono. Il teatro allunga la vita. John Gielgud morì a 96 anni recitando fino alla sera prima Re Lear».
Davvero il massimo per un attore è morire in palcoscenico?
«Dopo Molière quella fine è diventata una leggenda. Mi accontenterei di morire in camerino. Corna facendo».
È superstizioso?
«Moderatamente. Mi incazzo se un copione cade in palcoscenico o se uno si veste di viola».
Tipico degli attori.
«Siamo un po’ fragili. Ma anche angelici e indifesi. Diventiamo cattivi solo perché non c’è lavoro o perché siamo messi da parte immotivatamente. Il nostro è un mestiere bellissimo ma vilipeso. L’Italia non ama il teatro».
Perché?
«Siamo un Paese che non ha identità drammaturgica. In tre secoli abbiamo prodotto solo tre grandi autori: Goldoni, Pirandello, e infine De Filippo. La prosa è stata uccisa dal melodramma e la commedia dell’arte, che fu una nostra invenzione, sopravvive a stento».
Ha dimenticato Dario Fo.
«Grande, non discuto. E poi che ci mettiamo contro un Nobel? Ma il suo che teatro è?».
Ce lo dica.
«È un teatro politico, un teatro che divide il pubblico e non lo unisce».
Ha precedenti illustri. Pensi a Brecht.
«Posso dirle la verità? Il teatro di Brecht mi annoia profondamente. Non mi emoziona. È l’emozione che deve guidare il pensiero, non viceversa. Un esempio di teatro universale ce lo abbiamo in casa: Eduardo De Filippo. Semplicemente immenso».
Lo ha conosciuto?
«Benissimo. La prima volta lo vidi recitare all’Eliseo nel 1948. Rimasi stregato. Poi cominciai a lavorare con lui».
È vero che era terribile con gli attori?
«Non direi terribile. Severo, intransigente sì. Amava la perfezione, che non è di questo mondo, purtroppo. E quella faccia emaciata sembrava aver visto tutto e patito tutto. Una sera, mentre recitava Il sindaco del rione Sanità lo sentii pronunciare la battuta: “‘A vita è tosta e nisciun’t’aiuta. O meglio c’sta chi t’aiuta, ma una volta sola... pè putè di’: t’aggio aiutato”. Ecco c’è tutta la sua immensa amarezza. Provo la stessa scossa che avvertivo nella recitazione di Titina».
La sorella di Eduardo sembrava abolire la distinzione tra maschile e femminile.
«Solo i grandi hanno questo dono. E lei fu grandissima. Eduardo scrisse per lei Filumena Marturano. E quando Titina morì, per aver recitato con troppa passione, nessuno seppe più essere all’altezza di quel ruolo».
Cosa aveva di speciale?
«Eduardo scrisse in una poesia: era tutt’uocchie».
E poi c’era l’altro grande della famiglia: Peppino.
«A me Peppino piaceva meno. Aveva dei tempi comici meravigliosi. Ma gli mancava la vibrazione che nasce dal profondo».
Che vuol dire avere “i tempi comici”?
«Il tempo comico è un tempo di attesa. Chi ce l’ha sa quando la pausa deve finire e la parola farsi avanti. Le parole non devono litigare con il silenzio».
A proposito di litigi fu celebre quello tra Peppino e Eduardo.
«Tutto nacque da Peppino che osò dare del “Duce” a Eduardo che lo aveva richiamato perché non recitava come avrebbe dovuto. Non si parlarono a lungo».
Lei ne sa qualcosa dell’inimicizia tra fratelli.
«Allude ad Aldo?».
Alludo.
«È difficile dall’esterno comprendere certi rapporti. Con mio fratello abbiamo fatto tantissime commedie. Era un comico bravissimo che giocava sulla simpatia. E aveva una voce straordinaria. La prima litigata avvenne per colpa della prima moglie che lui voleva imporre in una nostra commedia. Io gli spiegai che non era Titina, non era adatta al ruolo. Ma sono cose che non si devono raccontare».
Però provaste in seguito a convivere.
«Ovviamente. Ma lui, che era il fratello più grande, pensava di poter estendere questa condizione anagrafica anche al teatro. E a quel punto ci intendemmo sempre meno. Peccato, perché la nostra infanzia fu molto solidale».
Che cosa vi teneva insieme?
«Gli stenti, la povertà, la fame. Mio padre morì nel 1936. Io avevo otto anni. Una sera sentii un urlo mentre ero in cucina a mangiarmi una zuppa di latte. Sembrava un urlo animale. E mi restò in gola quel pane bagnato di latte che non andava né su né giù. Se ripenso a quell’episodio mi chiedo perché mai la morte non bussa mai con discrezione».
Suo padre cosa faceva?
«Era contrabbassista al teatro San Carlo. Dopo la sua morte, mamma ci mise in un collegio per poveri. Non può immaginare cosa fosse la miseria. Non avevamo neppure le scarpe. Estate e inverno giravamo con dei vecchi zoccoli. Mi sentivo stranito, impaurito, disperato. La notte facevo la pipì nel letto. E quando le sorveglianti se ne accorgevano erano botte. Per cui passavo ore a cercare di asciugarla con il calore del corpo. La domenica, poi, la mamma ci portava la sfogliatella».
Che donna era?
«Straordinaria. Una volta la vidi chiedere l’elemosina e compresi quanto le doveva esserle costato quel gesto fatto per noi, per i suoi figli. Ero ancora in collegio quando nel 1943 ci fu il bombardamento su Napoli. L’edificio in parte venne giù. Ci salvammo rifugiandoci nei cunicoli. Ricordo l’angoscia che provai pensando che mio fratello non ce l’avesse fatta. Poi lo vidi sbucare da un vicolo, ci abbracciammo e a piedi tornammo a casa. Vedemmo la devastazione delle bombe: i morti, le rovine, le urla. E finalmente giungemmo a casa. La mamma ci consolò con la zuppa di scarola».
Cosa le è rimasto della povertà di allora?
«Una sensazione strana. Come se una certa rassegnazione iniziale si sia trasformata in un forte amore per la vita. Devi amare la vita per sopravvivere alla povertà. Non vergognartene».
Che sentimento è la vergogna?
«Uno stato d’animo che non gestisci. Ti fa sentire impotente. Ricordo che quando gli americani entrarono a Napoli, rubai da un loro camion un paio di scarpe bellissime. Un soldato se ne accorse. Mi acciuffò mollandomi una sberla. Quel piccolo furto rappresentava tutto quello che non avevo mai avuto: i piedi spesso scalzi, il futuro che non vedevo. Me ne vergognai a tal punto che cominciai a tremare. Il soldato se ne accorse e mi lasciò andare».
La sua giovinezza è stata tremenda.
«Sì, compensata dalla scoperta che il teatro era la sola cosa che mi piaceva fare. Nel 1947 venni a Roma e tentai di entrare all’Accademia di arte drammatica. Eravamo in dodici a sostenere l’esame e giunsi secondo. Dopo Gian Enrico Tedeschi. Poi ci fu il vero apprendistato: Eduardo da cui ho cercato di “rubare” tutto, assimilando ogni suo gesto. Ci furono De Lullo e Valli. E perfino Totò. Grandissimo attore di teatro».
Più grande di Eduardo?
«Come si fa a dirlo. Erano incommensurabili. A Eduardo bastava il silenzio, un respiro per trasmettere un pensiero o uno stato d’animo. Totò era lo sberleffo e il surreale dentro un corpo macchina. Era attore e marionetta. Eduardo non aveva nulla del burattino. Quando recitava sembrava rivolgersi personalmente a ogni spettatore seduto in platea. Certamente Totò ha fatto molto più cinema».
Anche lei ha una filmografia non indifferente.
«Ho fatto tanti film, alcuni importanti con Monicelli e la Cavani».
Ma anche molta robaccia. Gira su YouTube una memorabile interpretazione di lei con la Fenech, nudi sotto la doccia.
«Ah! Pellicole maliziose e di cassetta degli anni Settanta. Un modo per un attore di teatro di assicurarsi una vecchiaia tranquilla. Effettivamente del cinema che ho fatto salvo pochissimo».
Benigni la chiamò per Pinocchio.
«La mia più grande delusione. Geppetto, il personaggio che interpretavo, fu ridotto al ruolo di una comparsa. La verità è che il cinema appartiene a chi taglia».
Sempre a proposito di Pinocchio viene in mente lo spettacolo di Carmelo Bene.
«Non amavo la recitazione di Bene e quella sua carica spinta. Mi infastidiva la sperimentazione cervellotica, l’estremismo, la provocazione».
Non le piaceva il teatro delle cantine?
«Io nelle cantine ci metto il vino. Ho imparato tutto, oltre che da Eduardo, da De Lullo, Visconti, Squarzina».
Oltre il teatro cosa vede?
«Niente. Non c’è al mondo qualcos’altro con cui potrei vivere e che potrei amare come il mio mestiere. Io mi cibo di teatro e il teatro si ciba di me. E siamo entrambi affamati. Certe volte la notte penso a cosa sarebbe stata la mia vita senza il teatro. E l’idea non mi piace».
La notte non dorme?
«Prendo sonno all’alba e dormo fino alle due del pomeriggio. È anche un modo per arrivare riposati alla sera».
E che fa di notte?
«Penso, glielo ho detto».
Legge?
«Poco. Diffidi di coloro che dicono che di notte rileggono la Recherche o Ulisse. Sa cosa ho imparato? Che la nostra vita, fuori da quello che veramente ci piace, è grottescamente involuta e mentalmente sedentaria».
Le manca suo fratello Aldo?
«Lo rivorrei a teatro con me. Nella vita avevamo imparato ad andare ciascuno per la sua strada».