Mario Serenellini, la Repubblica 20/1/2013, 20 gennaio 2013
ALAIN RESNAIS
Pensare ad Alain Resnais farmacista è come immaginare Michelangelo Antonioni droghiere o Jean Renoir bigliettaio. O il tabaccaio all’angolo un Orson Welles mancato. Eppure, l’autore di film, come
Hiroshima mon amour,
che hanno sminuzzato ogni ricetta cinematografica, ha rischiato di finire ragazzo dietro un bancone, in camice bianco, a servire garze e pastiglie. Oggi, dopo una ventina di lungometraggi e a quasi novantun anni, può tranquillamente archiviare lo scampato pericolo: «Avevo subodorato subito la trappola: padre farmacista, nonno farmacista... il mio destino era segnato. Ho cercato una scappatoia: libraio. Sempre una gabbia, resa però più sopportabile dalla prospettiva di divenire libraio-editore. E dal fermo proposito di dedicarmi al cinema il sabato e la domenica».
Il grande regista francese, stilizzato dal tempo in un’elegante silhouette con nuvola di capelli argentei, si ritempra al ricordo delle fughe giovanili dalla realtà, sotto lo sguardo intenerito di Sabine Azéma, sua fedelissima interprete, che ha sposato nel ’98: «A diciott’anni, come tanti, attore di teatro. Soprattutto per combattere la timidezza. Non c’è mai stata una vera vocazione, anche se nessuno mi ha mai
dato del cane. Imprevedibile, piuttosto: ma non ho mai capito quale bottone premere per evitare gli errori. Quel che davvero m’interessava era entrare in quel mondo, stare in quinta, sentire l’odore delle scenografie, scoprire testi appena scritti, provare la voglia di metterli in scena. Era l’epoca di Anouilh, Pirandello, O’Neill. Sono state le stesse ragioni che mi hanno attratto nel cinema: bazzicare nel
milieu,
incontrare attori, registi, direttori di fotografia. Dopo un’infanzia trascorsa in ambiente provinciale, in Bretagna, la mia prima aspirazione è stata di conoscere il mondo dell’arte, considerato in provincia il frutto proibito anziché il luogo della creatività». Una vita nel segno della libertà d’immaginazione: «Cui hanno contribuito i fumetti. E la lingua italiana. Da ragazzino leggevo in originale
L’Avventuroso
e
Flash Gordon editi
dal fiorentino Nerbini. Così l’Italia ha cominciato a ghermirmi, a stupirmi con i volteggi visionari di Fellini — altro “ignorantone” come me, nutrito di strips più che di pellicole — incantandomi dentro gli spazi sferici del Pantheon, che avvolgono ora l’ultimo
Vous n’avez encore rien vu,
o davanti ai silenzi prospettici e agli sguardi fuori quadro di Piero della Francesca, ricalcati in
L’anno scorso a Marienbad.
È cresciuta, insieme, la mia fascinazione per il suono della vostra lingua, e dunque la voce dei vostri attori, confluiti nei miei film: Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman e Ruggero Raimondi, Laura Morante».
Italiana anche la musica, agli inizi: Giovanni Fusco, lo stesso del primo Antonioni, per
La guerre est finie.
«Alla musica ho sempre dato molta importanza. Ho scoperto il cinema all’epoca del muto (tutt’altro che muto, con gli accompagnamenti dal vivo) e del passaggio al sonoro: entrare in una sala era allora una magia. Ho scandalizzato una volta l’ingegnere del suono, affermando che si può concepire un film senza immagini, ma non senza suoni. Ne è una prova
Quarto potere:
se lo si ascolta senza guardare lo schermo, lo si segue alla perfezione con la sola partitura di Bernard Herrmann. Non dico che le immagini siano per questo inutili. Ma Welles, che era uomo di radio, potrebbe condividere il mio paradosso: che un film sia riuscito lo si capisce
se funziona alla radio. Che per lui era molto meglio del cinema, perché non richiedeva lo spazio d’uno schermo». Radio, suono, voce: è l’orecchio che guida il suo sguardo? I suoi film nascono anche da tanto teatro, tanta lettura, che sono altre forme d’ascolto.
L’occhio ascolta,
titolo d’una storica mostra, potrebbe valere per il suo cinema? «Lascio anche molto spazio al caso. Mentre ero al montaggio di
Vous n’avez encore rien vu,
trasmettevano su
France Culture
la canzone di Frank Sinatra
When I Was Seventeen / It Was a Very Good Year...,
che ho messo sui titoli di coda, perché mi pareva corrispondere al senso del film, sullo scorrere degli anni, da un passato sempre più remoto fino alla vigilia della morte: l’equivalente d’una canzone che adoro,
Déjà,
scritta nel 1928 da Paul Colline, che faccio cantare a Jean Champion
in
Muriel,
ma potrebbe andar bene in ogni mio film. M’incanta per la sua malinconia, la sua dolcezza. La conosco da quand’ero bambino. Posso cantarla anche adesso, senza problemi di memoria...». E lo fa davvero: «Piano, piano Signor Tempo, presto, rallenti in curva. Ieri ero ancora un bambino e già ho i capelli bianchi...» dice il testo tradotto.
Ieri, nel ’48, per Resnais è
Van Gogh,
premiato a Venezia e Oscar ’50, e altri titoli divenuti subito storia. Sessantacinque anni dopo, è “già” al lavoro su un nuovo film,
Aimer, boire et chanter:
«Sempre ispirato al mio amico Alan Ayckbourn, uno dei miei autori di teatro prediletti, insieme a Henry Bernstein o a Jean Anouilh, che ho seguito fin dagli anni Trenta assistendo ad almeno venti debutti: uscendo dall’Euridiceal Théâtre de l’Atelier settant’anni fa, ero così commosso che ho fatto il giro di Parigi in bicicletta e ho rivisto lo spettacolo dopo neanche una settimana. Avevo scattato molte foto, che ho tenuto. Io tengo tutto. Non buttare via chiede meno tempo che decidere cosa buttare».
Viene rimproverato talora di promuovere “cavie” teatrali flebili, indegne del grande schermo: «A me piace molto Beckett, ma non saprei proprio come trarne film. Il rischio è che mi affibbino l’etichetta di cineasta cerebrale. Mi vien da ridere, quasi fossi dentro una
pièce di
Pirandello, che ha descritto a meraviglia come gli altri ci vedono e come s’appropriano della nostra immagine per fabbricarne un’altra. Cerebrale io? Mi definirei soprattutto un esperto di fumetti. Con la passione per la letteratura popolare. Mi piace lo spirito del
feuilleton,
non disdegno i soggetti da soap opera. Secondo logica,
Spider-Man,
avrei dovuto dirigerlo io. Nel ’68 o ’69. Ci aveva provato una piccola società di produzione Usa. Erano gli anni in cui i supereroi andavano in giro in pigiama. Avevo rifiutato, argomentando che qualsiasi altro cineasta americano avrebbe fatto meglio di me. Ma sono ancora fiero di aver potuto frequentare una star dei comics, il grande Stan Lee, lui pure verso i novantun anni oggi, creatore di
Spider-Man
e altri cento supereroi Marvel: ci siamo a lungo confrontati su progetti purtroppo mai realizzati, perché troppo
cari. Ma fin dai miei esordi dietro la cinepresa m’ero dato un limite: non trarre film da romanzi o da fumetti. Lo ritenevo impossibile: i trentadue volumi di Fantômas, scritti da Souvestre e Allain, sono capolavori d’inventiva e di poesia, allo stesso titolo dei romanzi di André Gide. Poi ho visto i due Batman di Tim Burton e ho capito d’essermi sbagliato».
L’invidiabile archivio di fumetti e dvd che è il suo appartamento sugli Champs-Élysées pullula di progetti in sospeso e idee galleggianti a mezz’aria, che lui riacchiappa al momento giusto: «Se un’immagine mi passa per la testa e tre giorni dopo è ancora lì, la metto nel film, anche se non ha alcun rapporto con il resto. È successo pure nella pellicola che sto girando: ho farfugliato una giustificazione al produttore, subito convinto. Segno che non costava troppo... Un modo di procedere che è forse eredità surrealista. “Se ci sono fenomeni che sfuggono alla tua comprensione, fingi di esserne l’organizzatore”. È un principio di lavoro». Rientra in questo metodo la scatola delle idee da cui lei pesca a caso preparando un film? «Sì, la scatola raccoglie articoli, disegni, foto. Un colpo di grazia a chi si ostina a considerarmi un autore. Al massimo, un
bricoleur,
che combina quanto non ha l’aria di stare insieme. Mi chiedo a volte se ho davvero qualcosa da dire. Non faccio che cercare. Ma non ho ancora trovato».