Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 20 Domenica calendario

SCACCO AL RE


Si fa presto a dire leoni. Da tempo immemorabile, il leone è simbolo di forza, di maestà, potenza indomita. Dall’hic
sunt leones
degli antichi al
Re Leone
di Walt Disney, passando per l’immancabile corpo a corpo vittorioso degli ottocenteschi esploratori vittoriani con la Bestia. Chiunque abbia avuto il privilegio di osservare da vicino un esemplare di
Panthera leo
nel primo sole della savana, mentre con la criniera controvento se ne ritorna a casa dalle sue scorribande notturne, sovranamente indifferente ai troppo numerosi esemplari di
Homo sapiens che
lo fotografano da ogni angolatura, sa che quel ruolo è meritato.
Ma il problema è proprio questo. Il leone rischia di diventare un simbolo e nient’altro. Leoni in carne ed ossa, fauci, zampe e ruggiti, tra poco potrebbero non essercene più. Quei pochi che restano in Africa occidentale saranno del tutto scomparsi tra cinque anni. La situazione è migliore all’est, ma non poi così tanto, se si considera che su un totale di quarantanove stati dell’Africa continentale quelli dove i leoni hanno qualche possibilità di sopravvivenza sono appena quattordici. L’allarme più recente è stato lanciato da LionAid, associazione animalista il cui nome dice tutto. Secondo gli attivisti di LionAid, le cose per i leoni sono messe peggio di quanto altre ricerche e studi hanno calcolato negli ultimi tempi. Il loro rapporto infatti non è l’unico. Ai primi di dicembre era arrivato sul web quello della Duke University, Carolina del Nord, pubblicato dalla rivista
Biodiversity and Conservation.
Gli studiosi della Duke hanno calcolato quanto resti dell’habitat del leone, servendosi di immagini satellitari ad alta definizione. Le conclusioni sono sconsolanti. Al re della savana rimangono ben pochi santuari dove possa sperare di sopravvivere. Rispetto a cinquant’anni fa, più o meno quando l’Africa divenne indipendente, questo habitat si è ridotto di tre quarti. E la popolazione leonina di un terzo: da circa centomila a soli trentaduemila circa al giorno d’oggi. Gli enti preposti alla conservazione delle specie selvagge stanno addirittura valutando se la
Panthera leo
sia da considerarsi ormai a rischio d’estinzione.
Questo era il tristissimo bilancio quando si sono fatti sentire quelli di LionAid. Le stime della Duke, hanno detto, sono troppo ottimistiche: la situazione è assai più grave. In tutta l’Africa, sostengono, si possono contare non più di 15.244 leoni, cioè meno della metà. Di questi, circa settecento sopravvivono a stento qui e là in Africa occidentale e centrale, in piccoli branchi isolati, e appaiono condannati a scomparire in pochi anni. In Nigeria, ad esempio, ne risultano appena trentaquattro: un numero, in termini biologici, del tutto insufficiente. I restanti quattordicimila e rotti abitano l’Africa orientale ed australe; ad essi resta esclusivamente affidata la speranza che la specie continui a popolare il pianeta Terra. È qui, nelle grandi distese
collinose di savana punteggiate di alberi di acacia, tra l’erba alta e le diffuse abbeverate, che l’ecosistema consente ancora una vita decente al più grande predatore africano. È qui che le zone relativamente conservate e protette, o ancora risparmiate dall’inesorabile avanzare degli insediamenti umani, spaziano ancora attraverso i confini degli Stati, come tra Kenya e Tanzania
o tra Zimbabwe e Botswana. E consentono al leone di resistere, sfuggendo ai cacciatori di frodo e agli allevatori infuriati per i periodici attacchi al bestiame, a trappole, veleni e schioppettate, alle malattie trasmesse da cani e da bovini, ai trafficanti di animali selvaggi e di trofei.
Anche qui, tuttavia, LionAid insiste: le cose stanno peggio di quanto pretendano
le autorità locali. Il numero ufficiale dei leoni stimati nei parchi della Tanzania, ad esempio, è di sedicimila ma per LionAid sono tutt’al più settemila. In Kenya il divario è tra oltre 1.900 e al massimo 1.400. Differenze così marcate pongono il problema del conteggio, questione controversa e senza soluzione apparente. L’impresa è complessa e costosa. Gli animali devono
essere attirati in luoghi prestabiliti con delle esche e poi fotografati dai due lati, affinché l’identificazione sia sicura. Come ha spiegato al
Guardian
l’esperto Sarel van der Merwe, «contare tutti i leoni fino all’ultimo è umanamente impossibile. Non solo è difficile, il costo non lo consente in alcun modo ». Occorre dunque affidarsi a stime, estrapolazioni, proiezioni. Lo studio della Duke University ha calcolato il rapporto tra la superficie restante di savana e il numero di leoni che riescono a sostentarsi in una determinata area. LionAid ha raccolto dati forniti da rilevamenti locali e li ha proiettati tenendo conto di un complesso insieme di variabili. Gli specialisti considerano relativamente attendibili entrambi i procedimenti. Altri giungono a conclusioni intermedie: la Born Free Foundation, dedita alla preservazione della fauna selvatica, calcola il totale dei leoni africani a venticinquemila. Ma comunque la si metta, dice il suo direttore Will Travers, «c’è un consenso generale tra tutti coloro che si occupano della sopravvivenza dei leoni africani: la situazione è estremamente grave».
Fin qui la diagnosi del pericolo mortale che minaccia il re della savana. Quanto alla cura, il discorso si fa ancora più complesso. Occorrono strategie globali, e dunque politiche governative, o addirittura sovranazionali. Ma al tempo stesso è vitale coinvolgere le popolazioni locali, i nemici più immediati del leone. Non c’è solo il bracconiere, c’è anche l’allevatore che persa l’ennesima mucca prepara l’esca avvelenata; la nuova famiglia che costruisce la capanna un po’ più avanti dell’ultimo villaggio e comincia a disboscare quello che fino a ieri era terreno di caccia per il branco; il poliziotto impoverito e corrotto che arresta il cacciatore di frodo e l’indomani per una manciata di denaro lascia aperta la porta della cella; l’operatore turistico senza scrupoli che non si cura di salvaguardare l’ecosistema. Tutti costoro vivono ed operano lontano dalle capitali, in regioni marginali dove la forza della legge stenta a farsi valere e solo l’attivismo, la capacità di convinzione, l’educazione a considerare gli interessi a lungo termine anziché quelli immediati possono sperare di ottenere qualche risultato.
Esistono, per fortuna, esempi virtuosi. Come il progetto Ewaso Lions, che opera nel Samburu, una regione selvaggia del Kenya centro-settentrionale. Iniziato cinque anni fa da Shivani Bhalla, minuta biologa keniana di origine indiana, Ewaso Lions conosce ormai uno per uno i leoni di quell’ecosistema, che ha censito dando un nome a ciascuno e seguendo la vita dei branchi. E ricorre a metodi umili per migliorare la convivenza tra la gente del posto e i grandi carnivori. Dopo l’ennesimo attacco a una mandria di cammelli, per esempio, lo staff di Ewaso Lions ha aiutato gli allevatori a rinforzare con robusta rete metallica i recinti del bestiame, che solitamente sono fatti di rami spinosi intrecciati: «Se impediamo ai leoni di uccidere il bestiame, i mandriani non reagiranno uccidendo i leoni». Semplice ed efficace. Il precario futuro della
Panthera leo
passa anche di qui.