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 2013  gennaio 21 Lunedì calendario

IL SUMO PIANGE TAIHO LO «YOKOZUNA» PIU’ AMATO DI SEMPRE —

Era immenso. Per altezza e stazza. Ma nel suo sport, il sumo, era considerato un gigante non tanto per le dimensioni (187 cm per 153 kg) — una norma per i lottatori giapponesi — quanto per la sua lealtà, lo spirito di sacrificio, la modestia. Insomma, Taiho, nome d’arte di Naya Koki, scomparso sabato scorso in un ospedale di Tokyo, a 72 anni, in seguito a un attacco di cuore, era un «gigante di moralità», come ricorda un suo allievo, il campione Chiyonofuji: «Taiho è la storia stessa del sumo. Mi ha insegnato che il compito di un grande campione è dare tutto, senza risparmio».
Così è stato in vita Taiho, il più titolato lottatore di sumo del Giappone: 32 Coppe dell’Imperatore tra il 1956 e il 1971, per due volte capace di vincere sei tornei di fila. Per fare un paragone, Chiyonofuji, che si è ritirato nel 1991, ne ha vinte 31. L’attuale campione, il mongolo Hakuho, ne ha portate a casa finora 23. Taiho è nella memoria storica di chi ama questo sport, perché era capace di far scivolare il suo avversario fuori dal cerchio di paglia (dohyo) con mosse agili — un paradosso considerata la stazza — e fulminee, che sembravano trasformare in un gioco i pochi secondi di scontro davanti a una folla in visibilio. Ma la sua vita, la sua carriera, sono state tutt’altro che semplici.
Nato sull’isola di Sakhalin, nel 1940, quando era ancora sotto la sovranità di Tokyo (oggi è parte della Russia), Taiho era figlio di un ucraino e di una giapponese. In uno sport legato alla tradizione come il sumo, essere un mezzo sangue poteva rivelarsi un ostacolo. E infatti, narra la leggenda, quando Taiho, negli anni Sessanta, e cioè al culmine della sua potenza, stava sbaragliando i suoi avversari, uno dopo l’altro, avviandosi a battere il record di vittorie consecutive, al 45° incontro fu «fermato» da un verdetto poi smentito (inutilmente) dalle riprese televisive. Ma tant’è: Taiho non doveva nemmeno avvicinarsi ai 69 incontri vinti senza soluzione di continuità dal precedente yokozuna (il massimo grado che può raggiungere un lottatore), e cioè Futabayama, che, tra l’altro, allora era al vertice dell’Associazione sumo del Giappone.
Cose di un altro mondo, di un’altra epoca: oggi le palestre dove si allenano i lottatori che portano in scena uno spettacolo antico quanto affascinante, legato al ciclo agreste e alle tradizioni dello Shinto, sono piene di atleti stranieri. Orientali (mongoli soprattutto), ma anche dell’Occidente e dunque più facilmente identificabili quando salgono sul «cerchio magico», dove ha luogo il breve e furibondo scontro tra giganti che prima danzano sfidandosi secondo un rituale millenario.
Taiho era uno di loro. Uno yokozuna particolare, perché nel cuore conservava il meglio di due mondi. E quando lottava la sua forza proveniva da entrambi.
Paolo Salom