Alberto Arbasino, Corriere della Sera 21/01/2013, 21 gennaio 2013
RADIO, LA PLAYLIST DELLA MIA INFANZIA
Quanta radio si sentiva, da bambini. Proprio altro non c’era. E inevitabilmente si imparavano a memoria le parole di quelle canzoni stupide. C’era addirittura un «Canzoniere della radio», apposta. E i parenti s’arrabbiavano, sentendocele cantare in cucina. («Crescendo tra le serve, cresceranno con una mentalità da serve». Chissà adesso, con testi rock più difficili che ai tempi di Frank Sinatra? O invece, sempre Ok tipo «Tu mi sai dare la vita, tu sei la speranza che non muore»?). Nella tarda età, insieme alla «Vispa Teresa» e «All’asilo d’infanzia vo’ ancor», torna fatalmente alla memoria una quantità di quelle stupidaggini. Ovviamente, insieme a tanti versi «tenuti a mente» per obbligo scolastico. «Per correr miglior acque alza le vele», «T’amo, pio bove; e mite un sentimento», «D’in su la vetta della torre antica», «Torna a fiorir la rosa», «Tanto gentile e tanto onesta pare», con l’indimenticabile ghigno scurrile di Totò su quel «pare».
Nonché «La donna è mobile», «Che gelida manina», «Amami Alfredo», «Pippo non lo sa», la canzone del Vulcano, o dell’Ingegnere, tipo «Tu, solamente tu», o «Dolce chimera sei tu».
Ma quei non sensi delle canzonette... «Sarà una festa per tutta la vallata, ridente e colorata di biancospini in fior. — Sarà più bella in abito da sposa, un vestitino rosa trapunto tutto d’or». Ma chissà che commenti, in quella vallata, davanti a un abituccio non bianco-candido come quei biancospini che (secondo la storia dell’arte) indicano una mancanza di colore.
Quando poi «fischia il vapor sulla strada ferrata» con «quale fragor nella notte stellata» — a parte le confusioni tra una strada stellata e una notte ferrata — se poi si tratta di «con lui poter partire, e poi tornar per la gioia di star con te», non si ricade forse nell’«avant-e-indré, che bel divertimento»? E saranno poi lucide o luride quelle rotaie metafore di un destin senza fin? I piccini più grulli potevano ripetere «forbici coltelli e mandarini, mai in mano ai bambini», come se fosse una savia massima di etica domestica?
E se «io t’ho incontrata a Napoli, bella dagli occhioni blu», si tratterà poi di una bellezza napoletana tipica? O forestiera?
Si può restare perplessi. «Dammi un bacin d’amor, me n’andrò via, fior d’ogni fiore, fiorentina mia»... «E diventi rossa rossa se qualcuno là per là, dolce una frase ti bisbiglia, ti fa l’occhiolin di triglia, ti saluta e se ne va». Ma dove se ne vanno, questi, nel momento più giusto? «Devo dirti che mi piaci! Voglio stringerti sul cuor! E in un impeto di baci, sfogar tutto il mio furor!». Bum! Che esagerazione opposta, andiamo.
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Per il decennale di Gianni Agnelli, vorrei ricordare un’ultima volta. Gli chiedevo come mai, nella famiglia di sua madre che includeva il cardinale Bourbon del Monte, protettore di Caravaggio, già figurassero quei Bourbon quando non erano ancora sovrani di Francia. Sorrise tristemente. «Lo sapeva Pierrà, lo sapeva Uguccione», parlando di cugini scomparsi, che avevo fatto in tempo a conoscere. «Ma non ci sono più». In anni più lieti, invece, lui e Kiki Brandolini si chiamavano «Kikkù» e «Janulash», ridacchiando. Ma non volevano dire il perché.
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Viene rammentato Franco Antonicelli, quale precettore dell’Avvocato. Ma chi ricorda che veniva da una distinta famiglia di Voghera, abitante in via Mazzini? Il fratello Giuseppe era direttore d’orchestra, sovrintendente del teatro Verdi a Trieste, e lì abitava con la moglie, la cantante Franca Somigli. Un altro fratello, Alessandro, era medico internista all’Ospedale di Voghera, e veniva regolarmente a misurare la pressione a mia nonna, inferma in casa. La sorella Amalia, detta «la Bidone» dal cognome del marito, era un’ottima amica della mia mamma, e comunicava alle signore di Voghera le ultime mode di Torino, secondo l’elegante fratello Franco. Per esempio: ai tè, non servire più i cioccolatini in un piatto d’argento, bensì in una coppa di cristallo. Le signore si omologavano. «Se lo dice l’Antonicelli...».
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Alla bella mostra veneziana di Francesco Guardi, i visitatori sono invitati a guardar giù sulla Piazza San Marco, ritratta molte volte. Così, poi, uscendo, si continua a venir tentati dai «punti di vista». E lì, altro che camere ottiche. Ci si sposta, per «posizionarci». E ad ogni passo, a ogni metro, col catalogo dei dipinti in mano, ci si muove e ricolloca, in asse con le due cupole della basilica. Sorpresa: in uno spazio che non si percepisce così asimmetrico, bisogna piazzarsi accanto alle Procuratie Vecchie? E si comprende come mai nei quadri del Guardi, in una veduta apparentemente frontale, la seconda cupola ammicchi a destra della prima.
Alla mostra parigina di Guardi e Canaletto, al Jacquemart-André, ci si consola piuttosto con gli sfarzosi arredi nelle sale vicine.
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Quante mini-idee e micro-spunti musicali, nella Prima e Quindicesima Sinfonia di Šostakovic, nel bel concerto dell’Opera di Roma diretto da Gennadij Roždestvenskij. E quante memorie di eventi. Anche, pochi mesi fa, col non meno insigne Yuri Temirkanov, a Santa Cecilia, gli ormai risaputi «due volti di Šostakovic», cioè la sconfinata melanconia e l’obbligatorietà sovietica.
Indubbiamente, la Prima e l’Ultima si ascoltarono dirette da Valerij Gergiev, ma dove? Al Concertgebouw di Amsterdam? Con la sua orchestra di Rotterdam, invece, indubbiamente, si ascoltarono per la prima volta i brani jazz di Šostakovic per il cinema. Al Konzerthaus viennese, dopo una lunga camminata dall’albergo. Una curiosità, allora: c’era già il cinema sonoro, in quegli anni Venti? E ci sarà già stato Roždestvenskij fra i direttori delle opere russe nella gran tournée cui assistemmo nei primi anni Sessanta alla Scala?
Le insistenti citazioni rossiniane della Quindicesima di Šostakovic, nel primo tempo, venivano salutate dai fans del sommo Totò, che l’avevano tanto applaudito quando cantava «Sono-Orlando-do-Paladino-no a cavallo-lo — di un ucceeello di cartòn». Care memorie, in quei vecchi anni. E la conduzione del Maestro è una vera «lectio magistralis» nella direzione d’orchestra. Lo si rammentava più confuso, anni fa, sulla Kurfürsterdamm berlinese, la mattina dopo un concerto magnifico, con un raro e squisito Lourié. Ma in una eventuale registrazione di stasera, come si sentirebbero i percussionisti degli strumentini, ripetutamente e insistentemente ricoperti dai fragorosi tromboni?
Alberto Arbasino