Marcello De Cecco, Affari&Finanza, la Repubblica 21/1/2013, 21 gennaio 2013
L’ULTIMA GUERRA DELLE MONETE
Il populismo che si respira nei principali paesi, specie in quelli sconfitti nell’ultima guerra, si accompagna a un nuovo nazionalismo che risolleva vecchie questioni geostrategiche. Tutto questo mostra la crisi nella quale stanno sprofondando le classi dirigenti di quei Paesi, ma anche di quelli che la guerra la vinsero, a partire dagli Stati Uniti, come risultato dei costi della globalizzazione per frazioni crescenti delle popolazioni che ad essa partecipano e che spesso non coincidono con coloro che invece ne colgono i frutti.
La classe dirigente emersa dalla guerra mondiale, che ha fissato la barra del timone sulla rotta della apertura dei mercati e della liberalizzazione, è in crisi e frange di essa si convincono della necessità di cominciare a cantare la canzone nazionalista, denunciando i principi dell’economia liberale ora che sembrano non godere più del consenso delle masse. Si rivendono idee protezioniste rivestite di abiti che le persone venute al mondo dopo la guerra non riconoscono più, mentre gli anziani vi riconoscono la moda degli anni trenta.
Non a caso, i due paesi dove maggiore è il fermento socio-culturale e politico, sono Germania e Giappone, i maggiori sconfitti. A entrambi furono imposti grandi sacrifici di sovranità, accettati per paura di cadere preda alla rivoluzione sociale e politica esportata dalle armate sovietica e cinese. Una volta crollata l’Urss e trasformatasi la rivoluzione cinese in un inedito esperimento sociale che ha imposto il capitalismo dirigista, tedeschi e giapponesi si trovano ad affrontare le sfide della globalizzazione in condizioni profondamente diverse. Fattore che unisce i due Paesi è il crollo demografico, che ne fa i più vecchi del mondo. Mentre i tedeschi sono risultati vincitori nel compito immane di fornire alla Cina i macchinari e gli impianti per procedere nel suo forsennato sviluppo, questo è riuscito peggio al Giappone, che ha dato vita a un esperimento di fomento dello sviluppo nei territori, ormai sovrani, del suo ex impero asiatico, secondo il modello di integrazione industriale della Mitteleuropa che si è integrata con la Germania. Ma mentre l’integrazione della Mitteleuropa è passata di successo in successo, approfittando anche del fatto che i paesi che ne fanno parte sono piccoli e poco rilevanti dal punto di vista sia economico che politico, quelli che avevano fatto parte dell’ Impero giapponese sono assai più popolosi, hanno di fianco un modello alternativo rivelatosi di successo anche maggiore a quello del Giappone, la Cina, e quindi si presenta loro la continua possibilità, accresciuta dal crescente espansionismo economico cinese, di cambiare cavallo e modello.
Ne è derivata la progressiva decadenza relativa del modello giapponese, dopo i fiammeggianti successi degli anni settanta e ottanta. Le classi dirigenti del Giappone si sono trovate allo stesso tempo a dovere affrontare la crisi del loro modello di sviluppo e quella del loro modello di integrazione regionale, in una crisi della propria economia che ha portato ad un ristagno durato già più di un ventennio.
Allo stesso tempo è venuta crescendo per grandi balzi la potenza economica e politica cinese. I cinesi ragionano secondo un modello abbastanza semplice di espansione della influenza politica sui territori nei quali si trovano le risorse primarie necessarie a far continuare la corsa della loro economia anche nei prossimi decenni. Il Giappone, in questa visione, si deve considerare come un concorrente, povero di materie prime come esso è assai più della Cina, che pure ha un gigantesco problema di uso di risorse assai superiore alle proprie disponibilità nazionali.
In questo contesto si può comprendere l’ascesa politica di Shinzu Abe, che sembra voler riesumare il ruolo che negli anni settanta e ottanta, fu giocato da un altro uomo forte, Yasuhiro Nakasone. Egli si è messo alla testa di un tentativo di realizzare un ambizioso programma di riconquista degli spazi economici perduti dal Giappone alla concorrenza non solo cinese, ma ancor prima coreana. Parte integrante di tale programma è una decisa politica di indebolimento dello Yen, la cui forza non sembra convenire più alla dirigenza economica e politica giapponese. Shinzu Abe ha, al suo esordio alla testa del governo, comunicato fermamente al governatore della Banca centrale del Giappone il suo desiderio di vedere una politica monetaria molto generosa e favorevole all’inflazione, in modo da far scivolare i cambi dello Yen con dollaro, euro e yuan cinese. Poiché il governo giapponese ha nei decenni mostrato di sapere affermare il suo volere rispetto allo Yen anche in mercati dei cambi formalmente liberi e indipendenti dal potere politico, lo Yen ha iniziato a scivolare avviando un domino che ha fatto precipitare nello sconforto coloro che sovrintendono alle sorti delle principali monete. Non tanto la dirigenza cinese, forte del suo immenso cuscino di riserve valutarie, e non veramente le autorità americane, che hanno una altrettanto inveterata abitudine di dettare ai mercati i tassi di interesse in dollari richiesti dalla loro situazione economica interna, mediante azioni e omissioni. Però l’amministrazione Obama ha anch’essa un obiettivo di perdita di valore relativo del dollaro. Non potendo veramente realizzare tale obiettivo nei confronti dello Yen, mentre le autorità cinesi sembrano perseguirne uno opposto di rivalutazione per lo Yuan, non resta che favorire la discesa del dollaro in termini di euro. La nostra è l’unica moneta lasciata volontariamente nelle mani dei mercati, quanto al suo valore internazionale.
Poiché nessuna area produttiva sembra disastrata, al momento, quanto quella europea, che sembra includere anche la Germania, restata fino ad ora indenne dalla crisi europea, anzi avvantaggiata da essa, potendo imprese e settore pubblico tedesco indebitarsi a costi vicini allo zero, vediamo quale potrebbe essere un tasso di cambio per l’Euro accettabile per tutti i paesi europei e a fortiori per la Germania. Si è sempre detto che gli esportatori francesi, italiani e spagnoli cominciavano veramente a soffrire con un cambio che superasse 1.30 col dollaro. A guardare la storia poco più che decennale della moneta europea, tale tasso lo abbiamo superato parecchie volte, arrivando a picchi assolutamente proibitivi per la competitività europea come 1.50 e persino 1.60.
Nelle attuali condizioni di depressione della domanda interna europea, questi tassi di cambio sono veramente proibitivi, e lo sono per tutti anche per la Germania e per gli altri paesi centro dell’area.
Quindi, la prospettiva di affrontare il nuovo contesto economico prevedibile nel prossimo decennio, che vedrà la globalizzazione secondo il modello liberale fortemente in affanno, criticata non solo dal Giappone, ma anche dagli Stati Uniti e persino dalla Germania, mette in discussione le principali caratteristiche di quel modello, a partire dalla indipendenza della banca centrale sulla quale si fonda l’Unione monetaria europea e che si è rivelata provvidenziale per la presenza di un timoniere fermo nella sua azione di contenimento della crisi dell’Euro, come Mario Draghi. In mani meno ferme e convinte della propria indipendenza dal potere politico, il timone dell’Euro avrebbe subito pericolose sbandate, specie in concomitanza con le non dimenticate bizze di neurotici governatori della Bundesbank. Se si affermano ora voci da destra e sinistra insieme, che in importanti paesi europei vogliono ridiscutere proprio tale assetto, corriamo seri rischi per la governance europea, lasciata in balia di populismi di sinistra ma specie di destra.
Quanto ho appena affermato sarà letto con incredulità da chi mi conosce, che mi sa antichissimo nemico della indipendenza delle banche centrali dai propri poteri politici. Ma quale è il potere politico rilevante dell’area euro? Non ancora quello del parlamento europeo e speriamolo nemmeno quello del governo tedesco. E non certo quello della Commissione. Certo, esiste il limite assai serio di una istituzione come la Bce, affidata ad un uomo, assai più che a una governance istituzionale, che pure esiste ed è definita dai trattati nei suoi dettagli. Ma tale è stato il modo col quale abbiamo ritenuto di realizzare l’unità monetaria europea. Occorre sbrigarsi a vestire tale assetto di un’efficace modalità istituzionale di governance, prima che gli anni di Draghi governatore finiscano e ci ritroviamo in balia di un nulla politico, dal quale potrebbe benissimo non emergere un altro Draghi, per la determinazione di un nuova dirigenza tedesca, di cui già si scorgono tratti molto poco rassicuranti, ad affermare la propria supremazia nell’Europa monetaria ancor più di quanto sia accaduto finora.