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 2013  gennaio 21 Lunedì calendario

SULL’ITALIA LA STANGATA DELL’EURO FORTE QUEST’ANNO CI COSTERÀ LO 0,4% DEL PIL


Neanche il tempo di tirare il fiato sullo scampato pericolo per i debiti sovrani. Un nuovo fantasma si aggira su Eurolandia: la forza dell’euro. E ancora una volta è l’Italia a pagare il prezzo più alto, perché sull’export basa le sue speranze di ripresa, rispetto alla Germania è in ritardo sul fronte della produttività e quindi il fattore-prezzo è importante.
Sembra un paradosso. L’Europa è l’area economicamente più debole di tutto il pianeta, eppure la sua valuta è la più forte. La fiammata ha una precisa data di inizio: 26 luglio 2012. È il giorno del famoso discorso di Mario Draghi a Londra: la Bce farà whatever it takes per salvare l’euro. Una missione confermata all’inizio di settembre a Francoforte, proprio mentre il governo tedesco dopo anni di indecisioni affermava con sicurezza che dall’euro non doveva uscire nessuno, neanche Atene. Da quel momento sono successe solo cose positive per Eurolandia: il nuovo fondo salvastati ha emesso con successo i suoi primi bond targati AAA (anche la Bank of Japan ne ha comprati parecchi), l’Italia ha recuperato stabilità e affidabilità, la Spagna ha cominciato ordinatamente a gestire i fondi di emergenza per le banche, perfino la Grecia si è riaffacciata sui mercati dopo sette anni. «A questo punto gli investitori, tolte di mezzo le preoccupazioni, hanno potuto guardare al differenziale dei tassi, che sono più alti in Europa che in qualsiasi altra parte del mondo: quelli della Fed sono allo 0,25%, quelli giapponesi e svizzeri a zero, la Bank of England allo 0,5%», spiega Francesco Saraceno, economista dell’Ofce, il centro ricerche di SciencesPo a Parigi. «Solo il Canada ha tassi più alti, all’1%. La Bce è allo 0,75%, e per di più il 10 gennaio il direttivo con una significativa unanimità ha riaffermato la volontà di non abbassarli».
L’euro corre. Da quota 1,20 sul dollaro di luglio ha chiuso l’anno a 1,30 e poi ha accelerato ulteriormente. Giovedì scorso ha toccato gli 1,34, venerdì è ripiegato comunque sopra gli 1,33. Un segnale di forte domanda viene dal mercato dei futures, spiega Marco Valli, economista per l’eurozona dell’Unicredit: «Il tasso dei contratti sull’Euribor a tre mesi con scadenza dicembre 2013 era dello 0,25% prima della riunione Bce del 10 gennaio, poi si è impennato fino allo 0,47 dopo essere arrivato nel corso della seduta di venerdì a superare lo 0,50». La tendenza al rialzo dell’euro è fortissima. È in parte una buona notizia perché potrebbe portare ad un rally di Borsa dalle conseguenze positive, ma il problema è che i nostri esportatori devono fare i conti con le conseguenze in termini di concorrenza. «Dal 2001 l’euro si è apprezzato del 70% sul dollaro, il che significa che vendiamo con uno sconto del 70%», dice Gabriele Centazzo, patron della Valcucine di Pordenone, 40 milioni di fatturato di cui 20 all’export. «Per difenderci abbiamo spinto al massimo sulla produttività, sulla qualità, sulla riduzione dei costi, e abbiamo lanciato linee di cucine più economiche cercando di ampliare il parco dei clienti». La concorrenza dei produttori americani si fa sentire anche sui mercati terzi, ricorda Carlo Ferlito, direttore generale della Beretta, 800 dipendenti e 90% del fatturato all’export: «In Paesi come l’India stiamo partecipando a importanti gare per forniture governative compresi corpi di polizia e vigili urbani, e dobbiamo ridurre drammaticamente i margini pur di presentare offerte competitive e non bruciarci importanti clienti». E Adolfo Guzzini, il leader dell’illuminazione, 184 milioni di fatturato 2012 di cui il 70% all’estero, aggiunge: «In America stiamo attuando ogni tipo di misura pur di non essere penalizzati dal fattore prezzi, dai rapporti privilegiati con i grandi costruttori alle alleanze con importanti studi di architettura. Del resto non c’è scelta. La debolezza del mercato europeo ci spinge a puntare proprio sull’area del dollaro: dobbiamo abituarci a crescere anche quando la valuta non ci aiuta».
La vitalità delle aziende italiane è sottoposta insomma all’ennesima prova. Le risposte sono le più varie: «Noi per nostra fortuna abbiamo molte produzioni in Asia e in altre zone denominate in dollari, dove c’è un’ottima tradizione nella carta e affini, e poi vendiamo nella stessa area valutaria», dice Arrigo Berni, Ceo di Moleskine, che alla vigilia della quotazione ha aumentato il fatturato del 17% nel 2012 fino a 78 milioni. Anche la farmaceutica Menarini esporta molto a Singapore e altre dollar areas: «Noi siamo forti venditori di un prodotto particolare, e nel nostro caso la qualità vale più di ogni altra cosa, anche del fattore prezzo», commenta il vicepresidente Lucia Aleotti. «Tutti ci riconoscono che non ha senso rivolgersi alla concorrenza proveniente da fonti sanitariamente meno qualificate ». La carta della qualità la gioca anche, su tutt’altro fronte, la Veneta Cucine di Treviso: «In Cina sono ancora disposti ad acquistare un prodotto di fascia alta e design indiscutibile a un prezzo per noi soddisfacente », dice Denise Archiutti, che rappresenta la famiglia fondatrice nel board. «Certo, anche noi stiamo mettendo in atto tutte le possibili economie interne per poi trasferire i vantaggi di produttività sul prezzo».
Oltre alle testimonianze dirette, sui costi dell’euro forte circolano molti studi. Uno, quello sulle cosiddette “elasticità valutarie”, ce lo illustra Gregorio De Felice, capo ufficio studi di Intesa SanPaolo: «Se il cambio dovesse rimanere sui livelli attuali per l’intero 2013, avremmo un effetto negativo sull’export pari a circa lo 0,5%, il che vuol dire una riduzione di Pil dello 0,15%. Ma se la media dell’intero anno salirà a 1,41 la diminuzione delle esportazioni in termini reali sarebbe dell’1,2% e del Pil italiano dello 0,4%». Il che considerando che già la crescita sarà negativa (-1% secondo Bankitalia) è quanto di peggio potrebbe accadere. «Per fortuna - aggiunge De Felice - quest’ultima ipotesi la riteniamo decisamente improbabile. In ogni caso, è urgente che le aziende e il governo si rendano conto dell’importanza di certe misure pro-competitività: per esempio, sarebbe opportuno trovare 6-700 milioni per la ricerca e sviluppo». Ma che l’euro possa arrivare a 1,40 e oltre non lo escludono altre qualificate fonti internazionali: «Potremmo diventare estremamente bullish sull’euro se solo gli Stati Uniti fallissero nel prossimo negoziato sul fiscal cliff, se la “periferia” europea restasse stabile, se la ripresa globale si rafforzerà, tutte ipotesi nient’affatto da escludere », ci conferma Athanasios Vamvakidis, foreign exchange strategist di Merrill Lynch. E Tom Levinson, stesso incarico e stessa sede di lavoro (Londra) alla Ing, aggiunge: «La portata del quantitative easing in corso in America è molto più aggressiva che nella precedente occasione del 2011, e allora il dollaro perse il 10%».
Il rapporto fra il QE della Fed e le oscillazioni dei cambi ce lo spiega Pier Carlo Padoan, capo economista e vicesegretario generale dell’Ocse: «La politica della Fed così come quella delle banche centrali giapponese e britannica, che a noi sia chiaro sta benissimo, è decisamente espansiva. Si creano così grosse masse di denaro in cerca di allocazione in qualche angolo del mondo. Ora, l’America è sicuramente un safe haven ma i tassi sono bassissimi. Così questi capitali si rivolgono in modo massiccio all’Europa, ora che i principali rischi sono stati rimossi». Va aggiunto, dice Padoan, che nel vecchio continente non c’è mai stata un’esplicita politica dei tassi di cambio, «anche perché lo statuto della Bce non la prevede. La banca di Francoforte, va anche detto, è stata sufficientemente impegnata a fronteggiare in questi anni la crisi dei debiti per poter affrontare troppi fronti insieme. In ogni caso è importante cercare un coordinamento fra le banche centrali per evitare eccessive oscillazioni e incertezze, che sono sempre pericolose fonti di instabilità e tensioni ». L’economista Rainer Masera è più risoluto: «Certo, la Bce persegue la stabilità monetaria lasciando che il cambio sia governato dai mercati. Però in questo momento in cui faticosamente stiamo andando avanti nella costruzione europea, pensando all’unione bancaria e fiscale, bisognerebbe anche trovare un assetto istituzionale che permetta di avere una politica del cambio. La Bce non deve pagare per la sua indipendenza. Del resto, la Fed, la Bank of Japan e le altre non si può dire che non agiscano in coordinamento con i governi».