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 2013  gennaio 21 Lunedì calendario

ATLANTIA-GEMINA LA SFIDA DI CASTELLUCCI TESSITORE E “TUTOR” SCELTO DAI BENETTON


Prima ancora di essere realizzato il progetto di fusione tra Atlantia e Gemina ha già ipotecato due record: sarà la più importante operazione di Borsa della prima metà del 2013; potrebbe far nascere, nelle infrastrutture, un gruppo italiano con qualcosa come 3 miliardi di euro di Ebida, che se la batterebbe a livello internazionale con soggetti come la francese Vinci e la spagnola Abertis. Ma l’operazione è una pietra miliare anche per il gruppo Benetton: rappresenta la chiusura di un cerchio aperto, a metà anni novanta, con la diversificazione dall’abbigliamento, e che adesso trova una sistemazione definitiva nella crescita di un gruppo importante, a livello internazionale, nelle infrastrutture, con alleati di peso fondi stranieri. Una strategia, quella della diversificazione, messa in cantiere da Gilberto e dagli uomini di Edizione, in primis Gianni Mion, per non disperdere le risorse liberate dal business originario di United Colors e mantenere unito nel tempo e nelle generazioni un patrimonio familiare investendo in business sicuri che dessero dividendi. “Io penso che sarebbe già molto - ebbe a dire Gilberto in risposta ad una domanda sul futuro del gruppo (cfr “Benetton da United Color a Edizione Holding” di Giorgio Brunetti e Paolo Bortoluzzi) - se i nostri figli fossero dei buoni azionisti… la mia preoccupazione è quella di lasciar loro qualcosa di facilmente gestibile e business che non presentino eccessive difficoltà competitive e gestionali”.
Arrivati alla soglia dell’uscita di scena della prima generazione della famiglia italiana che è stata protagonista della stagione delle privatizzazioni, i presupposti per il futuro sembrano delineati. L’abbigliamento della Benetton Group, il mondo più competitivo e più problematico, sotto la gestione di Alessandro, figlio del patriarca Luciano. I business della diversificazione attuata da Edizione nelle mani di manager fidati e provati: Autogrill in quelle di Gianmario Tondato, cresciuto nel gruppo, e Atlantia-Autostrade più, dopo la fusione, Gemina-Adr, in quelle di Giovanni Castellucci, .
Monopolista in Italia con la sua rete di oltre tremila chilometri di autostrade (superata per mille chilometri in Europa solo dal gruppo Vinci), Castellucci ha sempre risposto piccato a chi gli rinfaccia di essere seduto su un business dai facili guadagni. «E’ vero, siamo monopolisti, ma investiamo un miliardo e mezzo l’anno, il 21% in più della media delle altre concessionarie, e più di quanto non facciano gruppi come Vinci, con tariffe che sono mediamente più basse che nel resto d’Europa. L’aumento di efficienza della rete è andato a vantaggio di tutti, e poi la concorrenza la facciamo all’estero: non è vero che abbiamo sconfitto grandi gruppi mondiali vincendo con il Telepass la gara per la messa a pedaggio delle autostrade francesi?»
Castellucci non si scompose neanche due anni fa, quando l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi andò giù con il machete a criticare, con dati pesanti, la lentezza degli investimenti autostradali realizzati solo per una frazione di quanto previsto dalle convenzioni di fine anni novanta. Sostenne Castellucci che il Governatore aveva criticato il sistema italiano e non certo il suo gruppo, che è l’unico che ha bilanci chiari che mostrano lo stato di realizzazione degli investimenti e le ragioni dei ritardi. E quando gli scappò detto in una riunione di operatori internazionali, a proposito dell’investimento dei Benetton con Atlantia nella cordata Alitalia, che quell’impegno era poco rispetto all’importanza di quello che stava negoziando con il governo, ne uscì con nonchalance, sostenendo che si era equivocato sulla risposta e mai e poi mai i due affari, Atlantia e Alitalia, erano stati messi in relazione in termini di favori, come molti insinuavano.
La franchezza, il piglio battagliero e la competenza acquisita in dodici anni di gestione di Autostrade- Atlantia hanno permesso a Castellucci di passare indenne tempeste come quella della fusione mancata con Abertis, che lo portò ai vertici di Autostrade di cui era direttore generale sotto Vito Gamberale, che si dimise e uscì dal gruppo, dopo aver approvato, e poi criticato, la fusione. L’abilità nel conseguire risultati, anche “politici” (la convenzione di Autostrade, approvata per legge dopo molte battaglie, è un sogno per molte concessionarie), gestendo un business invidiato e criticato da molti per margini e entità dei guadagni, ne hanno fatto per Benetton un manager di riferimento. Mion, stratega del gruppo, lo aveva designato ai vertici di una Sintonia che doveva essere il pivot della famiglia nella crescita internazionale nelle infrastrutture: “E’ l’uomo giusto per età ed esperienza”, disse Mion, dopo essersi lasciato scappare “dio ci conservi Castellucci” in uno dei tanti frangenti difficili. Ma la crisi internazionale, che ridimensionò quel progetto, e la necessità di non sguarnire l’operatività della più importante provincia dell’impero di Ponzano, hanno deciso altrimenti.
Il sodalizio con Gilberto e Mion, del resto, data da prima dell’ingresso di Castellucci in Autostrade, avvenuto nel 2001 come direttore generale, all’indomani della privatizzazione della società dell’Iri. Furono loro a notare ed apprezzare, a fine anni ottanta, questo brillante ingegnere di trent’anni, partner alla Boston Consulting Group tra Milano e Parigi, che faceva loro da consulente nella gestione e nella crescita della Gs, la società della grande distribuzione privatizzata dall’Iri e acquisita dai Benetton. La Gs nel 2000 venne venduta dopo una lunga ristrutturazione alla Carrefour, e Castellucci a 40 anni fu chiamato dai Barilla come amministratore delegato del gruppo, esperienza che durò poco più di un anno, quando Gilberto e Mion lo chiamarono ai vertici di Autostrade.
Adesso con la fusione tra Atlantia e Gemina, operazione non certo scontata per i suoi numerosi risvolti e implicazioni finanziarie, i Benetton affidano alle spalle solide di Atlantia e alle capacità manageriali di Castellucci la sfida di riuscire a riportare alla normalità Adr, il sistema aeroportuale più importante d’Italia, agli ultimi posti nel giudizio degli operatori internazionali. I presupposti ci sono: il contratto di programma e gli aumenti tariffari sono stati portati a casa a fronte di un piano di investimenti promesso di 12 miliardi. Ma la sfida è da far tremare le vene ai polsi: non solo per l’entità degli investimenti ma anche per le condizioni in cui è ridotto Fiumicino dopo anni di interventi a pezzi, non progettati. Con un traffico aereo che lo costringe un giorno su cinque a operare in condizioni critiche, cioè con un numero di movimenti al limite. Strutture all’interno come la sicurezza, alcune aree di arrivo e di imbarco, che hanno superato da tempo i livelli di saturazione. E, all’esterno, infrastrutture necessarie anche esse sature che costringeranno ad un difficile negoziato con gli enti locali.
Il momento non è di quelli facili. Sebbene Castellucci e gli uomini di Ponzano propongano il modello di altri gruppi internazionali integrati tra aeroporti e autostrade, una cosa è investire in una rete sulla quale si passa e si paga, un’altra è costruire il successo e l’efficienza di un aeroporto sottoposto alla concorrenza internazionale. Lo testimoniano le difficoltà di un gruppo di peso come Ferrovial con gli aeroporti inglesi, nonché l’ennesimo rinvio dell’apertura dell’aeroporto di Berlino, un investimento da 4 miliardi di euro, fermo da quattro anni nel mezzo dell’efficiente Germania.
Del resto basterebbe la crisi di Alitalia, principale cliente di Fiumicino di cui copre la metà del traffico, a rappresentare di per sé una sfida, visto che la logica di un hub come aspira ad essere Adr e il suo piano da 100 milioni di passeggeri, presuppone una compagnia forte alle spalle. Se tuttavia la sfida di portare ad efficienza questo business riuscirà, il risultato sarà duplice: per i Benetton che possederanno un forte gruppo e un solido futuro per il loro patrimonio, ma anche per il sistema Italia che potrà dimostrare di essere, almeno nelle infrastrutture, un paese normale.