Gianni Clerici, la Repubblica 21/1/2013, 21 gennaio 2013
QUEL FENOMENO FRAGILE DI BORG CHE NON SEPPE VIVERE DA RE
Nel vedere in campo l’altro giorno i veterani, ora definiti addirittura Legend, che noi chiameremmo Miti, e nel conversare con quelli che sono ora commentatori televisivi quali Wilander o i Woodies (Woodbridge e Woodford), mi è venuto in mente Bjorn Borg , e il suo anniversario: il 22 gennaio di trent’anni fa annunciò che si sarebbe ritirato dal tennis, appena ventiseienne.
Di certo Bjorn non è celeberrimo
Down Under
(Quaggiù in Australia) perché nel suo impero men che decennale affrontò una sola volta, e senza successo, nel 1973, la lunga trasferta verso un torneo tanto in crisi da conservare quasi abusivamaente la definizione di Grand Slam. Ma, per ricordarmi qualcosa della sua carriera, non posso non ritornare a una giornata dell’inizio Anni Settanta, quando raramente mancavo il Torneo di Bastad, la magnifica spiaggia svedese. C’era, in quel club contiguo al mare, un maestro che era stato un ottimo giocatore, Percy Rosberg. Si ricordava di me come del più debole tennista mai visto in una finale dei luoghi, e questo lo disponeva favorevolmente verso il cronista. “Vieni e dimmi se questo ragazzino sarà un futuro campione”, mi suggerì. E, su un campetto periferico, mi indicò un bel biondino che disinvoltamente si atteggiava in gesti anomali, un diritto semicircolare, un rovescio ancor più insolito dei pochi rovesci bimani in circolazione, simile al gesto di un taglialegna. “Lo lascio giocare così perché credo alle teorie di una insegnante del tuo paese, la Montessori”, mi disse Rosberg. Passarono un paio d’anni, e su un giornale lessi che quel ragazzino aveva battuto all’esordio in Davis, a soli 15 anni, un buon giocatore neozelandese,
Onny Parun. Non mancai di seguirlo, durante Wimbledon Junior, e quel ragazzo non mancò il successo. Un collega svedese mi informò che il suo nome Bjorn significava Orso, il cognome, Borg, Cittadella, e scrissi sul
Giorno,
come al solito avventatamente, che sarebbe divenuto Number One. Due anni dopo l’elementare profezia si realizzava perché, dopo aver impallinato a Roma il mio incredulo amico Ilie Nastase (“Quel Borg strappa il panno alla palla”, mi disse) l’Orso vinceva Roland Garros contro Manolo Segundo Orantes, lasciandogli giusto due games nei tre set finali.
Era l’inizio di una carriera di imbattibilità europea, incredibilmente coniugata tra la terra e l’erba di Wimbledon dove, in quei tempi di racchette di legno, era quasi proibito vincere privi del binomio Serve and Volley.
Ma l’Orso aveva, in quel suo rovescino da ex giocatorello di hockey, trovato l’arma per seguire a rete, dove basta notoriamente, per il rimbalzo minimo sui prati, toccare la palla.
Era intanto cresciuto, Bjorn, e a
Rosberg si era amichevolmente sostituito un altro allenatore, Lennart Bergelin, il miglior tennista (primi dieci) mai apparso in Svezia. Simile paterna amicizia sarebbe dapprima stata utile ad un matrimonio con una giovane collega rumena, Mariana Simionescu, ma non avrebbe potuto opporsi ad una successiva vicenda amorosa con una cantante italiana, Loredana Bertè, già fidanzata di Panatta, in grado di meglio assorbire le difficoltà grazie al suo antico cinismo romano.
Sono andato di fretta e ricordo
che tra i due matrimoni intercorsero ben otto anni, durante i quali Bjorn vinse qualcosa come sei Roland Garros e cinque Wimbledon. Ma non so ancora oggi se Bjorn vada ricordato più per queste straordinarie imprese, o per le ferite umane che il successo può infliggere ad un’anima semplice quale la sua. Nel 1980, di fronte al Monarca regnante del Tennis, si palesò un ancor più giovane rivale, il newyorchese John McEnroe. Anche lui dotato di armi anomale, servizio incredibilmente tagliato, carezze avvelenate nelle volée. Nel
1980 l’Orso riuscì a salvarsi del regicidio in una finale londinese ormai storica per un infinito tiebreack nel quarto set, un brandello di vita ancor oggi visibilissimo in tv, 16 punti a 14, in cui Borg ebbe a suo favore cinque vani match point. Riuscì disperatamente a conservare la corona nel set finale, ma l’incrinatura si accentuò via via, sino a far crollare il diadema nella successiva finale dello US Open.
Da quel giorno iniziò una crisi insieme sportiva e umana, ed eccoci ad una ripetuta assunzione di droghe, non estranea alle quali fu l’intimità col povero campione Vitas Gerulaitis, e con un altro tennista italiano, poi rigenerato nella clinica Vuarnetto di Lugano. Al termine degli Anni Ottanta, l’intossicazione raggiunse il suo massimo in una notte milanese, della quale fu testimonio un medico del Fatebenefratelli, mio consocio al Tennis Club Milano, che ebbe a dirmi: “Uno che non avesse il suo fisico, sarebbe morto”. Seguì un matrimonio milanese con la Bertè, vicenda tempestosa che vide la cantante in una simile drammatica situazione due anni più tardi. L’umana vicenda dell’Orso si attorcigliò sempre più in seguito al fallimento della fabbrica di abiti sportivi da lui creata, di scontri col fisco svedese contrario alla cittadinanza monegasca, e a due lacrimevoli tentativi di ritorni in campo falliti, per non parlare dell’ultimo, addrittura lugubre, alla presenza di un finto guru sfruttatore, nel 1991 contro lo spagnolo Arrese.
Giunse, l’impoverito Borg, alla tentata vendita dei suoi trofei, un’asta sventata da un’offerta di Agassi, e a un nuovo matrimonio infinitamente più tranquillo con la connazionale Patricia Ostfeld che gli diede un figlio, Leo, e gli aprì le porte per un ritorno in Svezia, dove ora vive. Serenamente, spero.