Alberto Bisin, la Repubblica 21/1/2013, 21 gennaio 2013
ECCO COME TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA
IN UN articolo su queste colonne la settimana scorsa ho argomentato a favore di una riduzione dell’Irpef per i redditi più bassi e dell’eliminazione dell’Irap (mantenendo però le addizionali regionali), con una riduzione del gettito netta che ho stimato in circa 35 miliardi di euro. Ho argomentato anche che questa perdita di gettito deve essere compensata da una riduzione della spesa.
E non da debito né da nuove forme di imposizione. Tagliare la spesa, quindi, scorrendo riga per riga il bilancio dello Stato, identificando i maggiori margini di inefficienza. Lasciando una discussione più approfondita della riforma del welfare (e del federalismo fiscale, che in Italia vanno necessariamente a braccetto) ad un prossimo articolo, mi limito a suggerire come sia possibile risparmiare dal bilancio dello Stato, senza riforme strutturali, quei 35-40 miliardi che ci permetterebbero di finanziare il taglio delle imposte.
L’operazione è meno difficile di quanto possa sembrare, sulla carta. Nella realtà essa richiede però di affrontare l’opposizione di amministratori centrali e locali, la cui esistenza stessa come politici dipende dalla spesa stessa. Il mio approccio consiste in generale nell’utilizzare come riferimento la struttura della spesa pubblica in rapporto al Pil prevalente in Europa (e in Germania in particolare, che a differenza della Francia ha operato un riaggiustamento delle proprie finanze nel decennio scorso) e quella prevalente in Italia nel 2001 (così da identificare possibili immotivate esplosioni di spesa in settori specifici).
Partiamo dai costi della politica. Per il finanziamento di “Organi esecutivi e legislativi, affari esteri” l’Italia spende oltre mezzo punto di Pil in più della Germania (dati 2010): circa 10 milardi di euro che vanno assolutamente recuperati. Oltre al risparmio diretto, tale operazione produrrebbe notevoli effetti indiretti in termini di minore
corruzione, minore regolamentazione, minori lacci e lacciuoli all’attività economica che oggi giustificano una ingigantita amministrazione pubblica.
Risparmi rilevanti sono possibili anche nelle spese per la “Difesa”, che sono ben più elevate in relazione al Pil che in Germania (o in Spagna) e sono aumentate di mezzo punto di Pil dal 2001. I risparmi sulla difesa potrebbero ammontare a circa 4-5 milardi, ma richiedono una riduzione soprattutto della spesa per il personale (62% del totale in Italia contro il 48% della Germania e il 45% della Francia).
È bene anche agire per la riduzione dei sussidi alle imprese – di quei sussidi che sono in realtà assistenzialismo mascherato per imprese semi-pubbliche o grandi imprese ben connesse con la politica, così come identificati nel Rapporto Giavazzi. I risparmi ammontano, secondo le stime contenute nel Rapporto, a circa 10 miliardi di euro.
Nonostante gli interventi del governo Monti, la spesa per previdenza in Italia è comunque al 18% del Pil, contro il 13% della Germania. Questi interventi avranno infatti effetti rilevanti sul bilancio a partire soprattutto dal 2015. Prima di allora essi produrranno risparmi in larga parte solo attraverso la de-indicizzazione delle pensioni e quindi colpiranno tutte le pensioni in modo proporzionale. Una azione mirata sulle pensioni più elevate, calcolate con il metodo retributivo, dovrebbe essere in grado di garantire sostanziali ulteriori risparmi sulla spesa previdenziale (il condizionale è d’obbligo perché, come è noto, dati disaggregati sulla
spesa previdenziale non sono resi disponibili). Il confronto con la Germania suggerisce che mezzo punto di Pil, 8 miliardi, potrebbe essere un obiettivo ragionevole.
Rimando una analisi più approfondita della spesa per sanità e istruzione al prossimo articolo riguardante la riforma di welfare e federalismo. L’istruzione, in particolare, ha visto una riduzione di spesa nel decennio scorso ed è quindi soprattutto una riqualificazione della spesa, non una sua riduzione a risultare necessaria. La spesa sanitaria è invece cresciuta ovunque nel decennio scorso, ma in Italia più che altrove (1,3 punti di Pil). Esempi di inefficienza, e quindi possibilità di risparmio, si annidano specie nella spesa per consumi intermedi. Una stima diretta di tali risparmi, basata sulla definizione di costi standard dei servizi offerti dalle varie regioni, ammonta a oltre 4 miliardi di euro, 2 miliardi dei quali solo in Lazio e Campania.
Veniamo infine alla questione della spesa per la retribuzione del lavoro dipendente. È ragionevole che una impresa sull’orlo della bancarotta, qual è lo Stato italiano, chieda dei sacrifici ai propri dipendenti; tanto più che la produttività dell’impresa stessa, misurata dalla qualità dei servizi pubblici offerti, è eterogenea ma generalmente bassa. Inoltre, i redditi da lavoro dei dipendenti pubblici sono cresciuti più rapidamente del Pil nell’ultimo decennio (38 contro 30% in termini nominali), in un contesto economico in cui i lavoratori del settore privato sono stati invece particolarmente esposti alla
competizione internazionale. Va anche detto però che il costo del lavoro pubblico in Italia non è drammaticamente fuori linea rispetto a quello medio nell’Euroarea (mezzo punto di Pil in più) e che il numero dei dipendenti pubblici è andato decrescendo negli ultimi 10 anni in proporzione agli occupati. Una riduzione delle retribuzioni nel pubblico impiego del 10% vale circa 12 miliardi al netto dei contributi e potenzialmente circa 8 al netto delle imposte, che rappresentano una partita di giro per il bilancio dello Stato. Naturalmente, anche in questo caso sarebbe bene garantire una sostanziale progressività dell’intervento, agendo soprattutto sui dipendenti con redditi più elevati, che peraltro sono quelli i cui salari si discostano maggiormente nei confronti internazionali.
In conclusione, una analisi anche approssimativa del bilancio dello Stato offre vari spunti per immaginare come si possano risparmiare a regime notevoli risorse da destinare ad una riduzione sostanziale del carico fiscale anche superiore a quella da me auspicata. Questa riduzione avrà un effetto espansivo sull’attività produttiva e comporterà una riduzione della spesa per interessi sul debito pubblico che aiuteranno il Paese ad uscire dalla situazione fiscale in cui si trova. L’analisi del bilancio mostra però anche vari cespiti in cui l’Italia spende troppo poco, ad esempio per la protezione sociale non pensionistica. Una riforma del welfare dovrà tenerlo presente, redistribuendo risorse tra i vari capitoli di spesa.