Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 19/1/2013, 19 gennaio 2013
ROMITI: LE NOSTRE CONFESSIONI SENZA MAI DARCI DEL TU
[intervista a Cesare Romiti su Giovanni Agnelli]
Dottor Romiti, per quale motivo lei restò in piedi nel Duomo di Torino per tutto il funerale di Giovanni Agnelli?
«Perché lui in chiesa faceva così. Ricordo una domenica in cui andai a trovarlo a Villar Perosa. Mi portò a messa. La moglie con i figli erano davanti. Lui era in fondo, e rimase in piedi per l’intera funzione: "Romiti, rimanga in piedi con me". Gliene chiesi il motivo. Rispose che aveva avuto un’educazione cattolica, e quello era il modo per dimostrare, se non la fede, la fedeltà. Restare in piedi al suo funerale era il mio modo di rendergli omaggio».
Che cosa resta dell’Avvocato, dieci anni dopo?
«Innanzitutto, una lezione di stile. Che non era solo una questione di estetica, o di mode. Certo, aveva un colpo d’occhio eccezionale per l’arte. E dettava piccole esteriorità subito imitate dagli adulatori, tipo la cravatta sul pullover. Ma lo stile per l’Avvocato era sostanza. Era comportamento, e anche valori morali che in lui erano profondamente radicati dall’educazione ricevuta e dall’esempio del nonno. Era del tutto incapace di dire bugie. Questo creava anche problemi».
Quali problemi?
«Alle trattative sindacali partecipava di rado. Quando veniva, però, si faceva sfuggire fin dove la Fiat poteva arrivare. È una cosa che ovviamente non si fa mai. Ma per lui era impensabile non dire sempre la verità; gli avevano insegnato così. Lo stile era il parametro con cui giudicava le persone. Per questo non considerava molto Berlusconi».
Non gli era neppure simpatico?
«No. Lo divertiva, ma gli dava fastidio epidermicamente, non riusciva a stargli vicino. In questi casi il suo giudizio diventava severo. Mentre era incline a perdonare in altri casi, in cui riconosceva una qualche forma di stile. Per questo, oltre che per l’affetto, perdonò Montezemolo».
Non crede che la vicenda dei capitali all’estero abbia gettato un’ombra su questo stile?
«L’attacco postumo alla memoria di Giovanni Agnelli è stato vergognoso. La vicenda è esplosa per l’iniziativa della figlia, che non andava d’accordo con la madre. Ma quando si parla di capitali all’estero bisogna innanzitutto distinguere tra i soldi della Fiat e quelli personali dell’Avvocato. Il gruppo è sempre stato internazionale. E lui si è ritrovato beni all’estero per questioni ereditarie. Non era uno che portava i soldi fuori, a differenza di molti altri. Se è per questo, non aveva mai una lira in tasca. Quando andavamo a prendere un caffè al bar, pagavo io».
Vi siete sempre dati del lei?
«È vero. Un giorno, dopo qualche anno, mi disse: "Si è accorto che ci diamo ancora del lei?". Risposi che andava bene così. Perché era un "lei" che sottintendeva una confidenza molto più intima di quella di un "tu". Lo dico oggi, con un certo pudore: l’Avvocato con me si confidava molto. E io nel mio piccolo facevo altrettanto. Parlavamo di tutto: le famiglie, le amicizie, le donne».
L’Avvocato che parla di donne, e non con le donne?
«Ne parlava per dire che mai avrebbe lasciato sua moglie. Diceva proprio così: "Io non potrei vivere senza Marella". Per lui la famiglia era un tassello fondamentale; sfasciarla implicava un fallimento. Per questo era contrario al divorzio di suo fratello Umberto. Sotto il profilo sentimentale, aveva un understatement sabaudo. La celebre frase che gli è stata attribuita, secondo cui "si innamorano solo le cameriere", è della sorella Suni, ma lui la faceva propria».
Non mi dirà che Agnelli pensava davvero che si innamorano solo le cameriere?
«Certo che no! Ma i sentimenti andavano taciuti. Come gli apprezzamenti. Come il dolore».
L’Avvocato non le manifestava apprezzamento?
«Mai in modo esplicito. Prenda la battaglia del 1980: l’occupazione della Fiat, la marcia del 40 mila. Io lo tenevo informato ogni giorno, sino alla vittoria sui sindacati. Lui non mi disse mai nulla. Ma qualche giorno dopo mi telefonò dal Quirinale e mi passò l’ex presidente Saragat, che fu calorosissimo: "Finalmente ho rivisto per strada i volti degli operai e dei quadri Fiat che conosco!". Era il modo che l’Avvocato aveva trovato per dirmi: bravo Romiti, grazie».
Lei ha raccontato a Paolo Madron che quando telefonò ad Agnelli da Pechino per le condoglianze dopo la morte del figlio, lui rispose: «Romiti, mi dica piuttosto: cos’è andato a fare in Cina?».
«Un altro segno di mentalità sabauda, direi quasi militare. In realtà stava patendo la sofferenza peggiore di tutta la vita. Forse il male che l’ha ucciso covava già dentro di lui; certo fu il dolore per la fine di Edoardo a scatenarlo».
Com’era la loro relazione?
«Edoardo era sensibile e generoso, ma inadatto ad assumere la responsabilità del primo gruppo industriale italiano. Suni diceva che in lui rivedeva Giorgio, il fratello morto prematuramente. Entrambi, padre e figlio, hanno sempre sofferto per quel rapporto che non erano mai riusciti a stringere. Ognuno era deluso dall’altro».
Il tramite tra lei e Agnelli fu Enrico Cuccia. Com’erano i loro incontri?
«L’Avvocato voleva bene a Cuccia, ma ne aveva un po’ soggezione. Cuccia era più anziano di lui, e poi aveva una cultura e una statura intellettuale impressionanti. Si vedevano spesso. Parlavano di affari per cinque minuti. Poi cominciavano a conversare di arte, mostre, musei».
Ci fu un momento in cui Mediobanca aveva preso il sopravvento in Fiat; poi Agnelli lo recuperò. A costo di lasciare la presidenza a 75 anni. Presidente divenne lei, che però dovette a sua volta lasciare subito dopo. Questo non ha creato frizioni tra voi?
«Non è stata una soluzione improvvisata. Era un accordo preso anni prima. Del resto, la famiglia Agnelli non ha mai avuto la maggioranza assoluta delle azioni Fiat. L’Avvocato era il perno di un sistema che coinvolgeva Mediobanca, Generali, Alcatel e Deutsche Bank. Ed era il capo che teneva insieme una famiglia numerosa. La regola è che al timone dovesse essere una persona sola».
Ma quando l’Avvocato annunciò che dopo di lui sarebbe venuto il fratello Umberto e dopo di lei Ghidella, Cuccia non apprezzò. E lei neppure.
«Guardi che io ho sempre riconosciuto le grandi qualità di Vittorio Ghidella. È il padre della Uno, l’auto che ha invertito il corso della Fiat, dalla crisi alla ripresa. Non avrei mai potuto determinare da solo le vicende che portarono al suo addio. Ci fu un’inchiesta interna, condotta da Chiusano e Grande Stevens in due o tre giorni, che confermò le irregolarità. Agnelli stesso me ne diede conferma. Non ho mai letto il rapporto, ma dovrebbe ancora essere nelle carte Fiat».
Al posto di Umberto venne designato il suo primogenito, Giovanni Alberto. Dopo la sua scomparsa, toccò a John Elkann. Com’era il rapporto tra nonno e nipote?
«L’Avvocato aveva in mente il rapporto che lui aveva avuto con suo nonno. Mi fece conoscere John, che cominciò a lavorare con me. Gli insegnai a leggere i bilanci. Poi andò in Polonia. Ha avuto una formazione seria. L’Avvocato voleva metterlo in consiglio al posto di Giovanni Alberto, ma esitava. Gli dissi che la cosa andava fatta subito. E così accadde».
Non avete mai avuto scontri? Non le ha mai mosso rimproveri?
«Scontri veri e propri, mai. Rimase perplesso quando gli dissi che avevo comprato Palazzo Grassi dalla Snia: "E ora cosa ce ne facciamo?". Poi si rese conto che era stata una bella mossa. Un’altra volta mi mostrò una lettera anonima contro di me che aveva ricevuto, dicendomi: "Gliela do perché la riguarda, ma non le attribuisca importanza. Sapesse quante ne ha date a me Valletta…".
Di cosa parlava la lettera?
«Di donne».
A Giampaolo Pansa lei raccontò di aver ricevuto da Rol, il celebre sensitivo torinese, una lettera con la grafia di Valletta. È vero che Agnelli non voleva che lei frequentasse Rol?
«È vero. Mi diceva sempre: "Romiti, non ci vada!". Ne era terrorizzato da quando a Venezia aveva sentito Rol raccomandare a un amico comune di non prendere l’aereo per Roma. Quell’aereo cadde, l’amico morì. Io però a casa di Rol trovavo Mastroianni e Fellini che pendevano dalle sue labbra. E la grafia di quella lettera era proprio di Valletta».
Quali erano i difetti di Agnelli?
«Erano inscritti nella sua biografia. Era nato ricco, e quindi vezzeggiato. Il suo lavoro non fu mai la gestione. Aveva il vezzo di dire che avrebbe fatto fallire l’edicola all’angolo; in realtà era intelligentissimo. Capiva cose e persone al volo. Noi lavoravamo tre giorni su un dossier, e lui in pochi minuti aveva colto il problema e individuato la soluzione».
Che idea aveva dell’Italia?
«La amava, ma la considerava un Paese di seconda schiera. Lui era affascinato dall’America, la patria di sua nonna. Parlava inglese con gli inglesi e americano con gli americani. Fu tentato davvero dall’idea di diventare ambasciatore a Washington, perché gli sarebbe piaciuto fare il diplomatico. O il giornalista, come i suoi amici Montanelli e Biagi».
Quando l’ha visto per l’ultima volta?
«Quindici giorni prima che morisse. Ma non ci fu un vero e proprio commiato: "Romiti, torni presto a trovarmi". Non amava le rievocazioni, non provava nostalgie. Ha sempre preferito il futuro».