Fulvio Bufi, Corriere della Sera 19/1/2013, 19 gennaio 2013
FONDAZIONE CHIUSA E SILENZI LA CADUTA DI «RE» BASSOLINO
NAPOLI — Lui è fuori da tutto, e praticamente ormai anche dalla sua Fondazione che si avvia a chiudere per mancanza di finanziamenti. Però è pur sempre Antonio Bassolino, uno che ha contato parecchio, che nel Pd (e denominazioni precedenti) ha avuto voce in capitolo ai massimi livelli, e nella politica del Paese il suo peso lo ha fatto sentire. Adesso invece non gli hanno nemmeno chiesto un parere prima di compilare le liste elettorali. E lui se l’è presa. Ma proprio molto. Lo dice nell’intervista rilasciata qualche giorno fa al Mattino, in cui esordisce così: «Scriva che sono fuori di me, che sono incazzato». Incazzatura politica, ovviamente, niente di personale. Quindi se il suo stato d’animo possa dipendere anche dal fatto che la moglie Anna Maria Carloni (che alle primarie è passata ma raccogliendo molto meno di quanto sperasse) sia stata messa in lista alla Camera soltanto al quindicesimo posto, non è dato saperlo. Bassolino accusa il Pd di aver fatto liste deboli che potrebbero mandarlo incontro a brutte sorprese, e magari i risultati del voto gli daranno anche ragione, perché lui è sempre stato uno che capiva le cose un attimo prima di molti altri, e il fiuto politico certamente ce l’ha ancora. Quindi al Pd faranno gli scongiuri davanti alle sue previsioni. Se andrà male, dice, «se la saranno cercata», perché «hanno fatto liste deboli, segno di una chiusura interna del partito. Persino il Pci dei tempi andati era più aperto verso gli intellettuali esterni e alla società». E lui i rigidi schemi del Pci li ha conosciuti, e diciamo che li ha anche applicati. Insomma non parla per sentito dire. Però che arrivasse a parlare così del suo partito è una sorpresa. Perché è vero che sicuramente lo voterà («come cittadino ed elettore non verrò meno al mio dovere») ma «una volta entrato nella cabina farò molta fatica a mettere la croce sul simbolo del mio partito», giura. E ammette che lo farà «solo per rispetto alla mia storia politica».
Cose così forti non si spiegano solo con una questione di permalosità, per la storia della Carloni o perché nemmeno il Pd si è fatto avanti quando la Fondazione Sudd è finita in cattive acque, o anche perché nessuno nel partito gli ha offerto più niente, da quando è uscito di scena travolto dalla tragedia dell’emergenza rifiuti che colpì Napoli e la Campania con lui governatore. Ad Antonio Bassolino bisogna riconoscere una onestà intellettuale e politica che lo ha sempre tenuto lontano da certe bassezze. Ragiona così perché ne è davvero convinto: «Nessuno mi ha chiesto di esprimere un parere sulle liste, me le hanno mostrate a cose fatte». Quindi «io ho espresso solo la mia preoccupazione. Con questi nomi non funzionerà e se ne accorgeranno».
A colpire Bassolino non è tanto il fatto che i capilista dei due collegi della Campania (Epifani e Letta) non siano campani. «Questo ci può pure stare, non mi scandalizzo. Anche in passato è stato fatto spesso». Ma, insiste, «bisognava allargarsi di più all’esterno, agli intellettuali, alla società civile. Invece le liste sono state fatte per tutelare gli apparati, sono state gestite con una logica tutta interna. L’ho detto, persino il Pci sapeva aprirsi di più. Anzi, si apriva di più».
Se non si conoscesse il suo percorso politico e personale degli ultimi vent’anni, i discorsi di Bassolino sul Pci potrebbero addirittura sembrare nostalgici. Non lo sono, ma che ormai non si riconosca più nel Pd lo dice lui stesso, e molto chiaramente, nell’intervista al Mattino: «Non mi riconosco in nessuna componente del partito, né bindiani, né lettiani, né dalemiani, né franceschiniani, né cozzoliniani e tutti gli altri. Sto a casa, per conto mio. E parlo a nome mio, di Antonio Bassolino». Che si era ritagliato un nuovo ruolo e uno spazio con la Fondazione Sudd ma è finita male anche lì: «Speravo che qualcuno si facesse avanti per sostenerci, ormai la notizia che fossimo in difficoltà era nota. Ma non si è mosso nessuno. Non solo il partito, ma nemmeno le istituzioni. Proprio nessuno».
Fulvio Bufi