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 2013  gennaio 21 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI DEL 21 GENNAIO 2013


La Francia di Hollande, che sta per lasciare l’Afghanistan dopo una lunga campagna di fiancheggiamento degli Stati Uniti, ha appena scoperto il suo mini-Afghanistan: il Mali. Lucio Caracciolo: «Vasto quanto poverissimo spazio sahariano-saheliano (quattro volte l’Italia, un quarto della nostra popolazione), di fatto privo di autorità statuale, infiltrato da gruppi di terroristi narcotrafficanti, tormentato da ricorrenti carestie e solcato da imponenti migrazioni. Un altro “Stato fallito”, trampolino per il terrorismo islamico? Così pensa Hollande, che lo ha già ribattezzato “Africanistan”». [1]

Da venerdì 11 gennaio l’aviazione francese sta martellando jihadisti e altri ribelli del Nord in avanzata verso la capitale Bamako, mentre lo sgangherato esercito maliano appare sbandato. La storia del Mali degli ultimi anni: «Mentre a Bamako giunte golpiste guidate da giovani ufficiali deponevano primi ministri (colpo di Stato del 2012), nel Nord i tuareg storicamente laici e separatisti si alleavano con i fondamentalisti di Ansar Eddine e altri gruppi affiliati ad al Qaeda nel Maghreb Islamico. Il Nord del Mali è stato così trasformato in uno stato rifugio di ogni traffico illecito e patria potenziale dei nemici del mondo occidentale». [2]

Già si sapeva che la caduta di Gheddafi avrebbe sprofondato le frontiere di mille chilometri: il Colonello era il guardiano del Sahel, dove teneva a bada alleati e avversari. Alberto Negri: «Questa è una battaglia che interessa direttamente gli americani per la presenza di al Qaida, gli Stati della regione – Algeria, Libia, Tunisia – sottoposti a infiltrazioni islamiche e terroristiche alle frontiere, coinvolge gli interessi delle monarchie arabe del Golfo che hanno finanziato i movimenti integralisti in ascesa in tutta l’Africa (a Doha è sorto un comitato talebano e salafita per il Nordafrica) e investe interessi economici e minerari che vedono da qualche anno in concorrenza gli europei, gli americani, i russi e la Cina». [3]

Nello spazio arabo-africano la minaccia jihadista è incarnata da quattro sigle: Aqap (al-Qaida nella Penisola Arabica), al-Shabab (Somalia), Boko Haram (Nigeria) e Aqim (Mali e fascia maghrebina). Si aggiunga la decomposizione della Repubblica Centrafricana, l’ex impero di Bokassa, e si ha un’idea della profondità della destabilizzazione in atto. [4]

L’intervento militare in Mali è legittimato dalla risoluzione 2071, approvata all’unanimità il 12 ottobre scorso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Negri: «I numeri delle forze in campo possono apparire sorprendentemente modesti. L’esercito maliano conta diecimila uomini di cui soltanto duemila “motivati” a combattere. Molti generali, per prudenza, hanno smesso di portare la divisa. I guerriglieri sono 4-5 mila ma agguerriti. Secondo gli esperti ci vorranno alcuni mesi per ribaltare gli equilibri militari, un risultato possibile se ai francesi si aggiungerà il sostegno del Pentagono e africano». [3]

L’operazione Serval era partita male con l’abbattimento di un elicottero e la morte del pilota. Guido Olimpio: «Sapendo che prima o poi l’offensiva sarebbe arrivata, gli islamisti si sono preparati. Come prima mossa hanno adeguato il loro arsenale. Gli ufficiali francesi hanno ammesso: “Sono più forti del previsto”. I guerriglieri si sono rivolti ai trafficanti che vendono il materiale trafugato dai depositi libici. Dunque nuove mitragliere, jeep migliori, lanciarazzi, cannoncini, munizioni in quantità, apparati di comunicazione. A ciò si è aggiunto quanto abbandonato nei mesi scorsi dall’esercito maliano. Con queste armi, gli islamisti possono rendere la vita difficile ai francesi». [5]

L’esercito maliano, sostenuto e sospinto dai francesi che ormai nel Paese sono 1.800, avanza nel Nord. Mercoledì scorso i primi scontri di terra con i ribelli. [6] Gilles Kepel: «A Parigi tutti si ricordano come la guerra civile algerina negli anni Novanta debordò sul territorio francese, dove alcuni membri dell’immigrazione algerina simpatizzavano con i gruppi armati. Certo, l’immigrazione del Mali in Francia è meno numerosa di quella algerina, ma è senza dubbio più fragile socialmente, politicamente e culturalmente. Il rischio che la guerra in Mali tracimi in Francia è un’ipotesi tutt’altro che inverosimile». [7]

Gli Stati Uniti temono che l’intervento militare francese non riesca a fermare il dilagare dei jihadisti, non soltanto nel Mali, e provochi altre tragedie, come quella avvenuta a In Amenas, un campo di gas algerino, dove i terroristi hanno preso in ostaggio i tecnici stranieri per punire il governo d’Algeri, colpevole di avere permesso agli aerei francesi diretti nel Mali di sorvolare il territorio nazionale. [8]

Lo scenario maliano è strettamente connesso con quello algerino. Con la caduta di Gheddafi l’Algeria era rimasta l’unica aspirante al ruolo di potenza regionale, un’ambizione che si sta sfaldando nella crisi maliana. «Anche per colpa di un algerino, Mokhtar Belmokhtar, detto il Guercio o l’Imprendibile, ex combattente in Afghanistan e ora capo di una corrente secessionista di al Qaeda nel Maghreb, la katiba dei “Fedeli del Sangue”: è stato lui a lanciare l’attacco all’impianto di In Amenas. Secondo alcune interpretazioni il ruolo dell’Algeria in questa vicenda è assimilabile a quello del Pakistan in Afghanistan: l’avanzata islamica è stata dovuta anche al fallimento della politica regionale di Algeri, oltre che alla disgregazione del Mali». [9]

Ricorda poi Gian Micalessin che l’Algeria è uno dei più affezionati acquirenti d’armi tedesche. «I suoi ordini, pagati in petrolio e gas, crescono continuamente e rappresentano una parte importante di quell’export d’armi che nel 2011 ha garantito a Berlino un bilancio record con oltre dieci miliardi di fatturato. L’Algeria combatte il terrore islamico sin dall’inizio degli anni Novanta e i suoi servizi di sicurezza sono i più esperti nell’infiltrare i gruppi qaidisti». [10]

Secondo il New York Times, negli ultimi quattro anni gli Stati Uniti hanno speso tra 520 e 600 milioni di dollari per contrastare i terroristi in Mali senza doversi impegnare in prima persona come in Iraq, Afghanistan e Libia. Il programma puntava soprattutto a offrire intelligence e addestramento alle forze locali. Le Forze Speciali americane avevano lavorato con particolare intensità al fianco dei soldati del Mali, insegnando le tecniche antiterrorismo, il tiro di precisione, l’uso e la risposta alle imboscate. Eppure, appena gli islamisti hanno attaccato, i reparti locali si sono squagliati. [11]

Non c’è solo la guerra al terrorismo a motivare l’intervento francese in Mali. Il sottosuolo del Paese africano è ricco di minerali e risorse energetiche. L’export di cotone ha ceduto all’oro lo scettro di principale introito commerciale, mentre cresce lo sfruttamento di uranio e bauxite. Nuovi giacimenti sono stati scoperti nelle regioni di Faléa, di Gao e Adrar e la compagnia francese Areva ha fiutato l’affare. [12]

L’ex generale Fabio Mini: «Ce n’è abbastanza per fare qualsiasi “non guerra” e per spedire soldati in una operazione “non militare”. Il Mali è anche un rischio diretto per l’Europa: non tanto per la minaccia dei rifugiati che si stanno spostando a Sud, ma perché il contagio della destabilizzazione del Mali può estendersi all’Algeria che non si è ancora ripresa dal trauma del terrorismo e che ha appena annusato il profumo delle rivoluzioni al gelsomino. L’Algeria è già Europa, per lo meno negli interessi economici, e se il Mali è come l’Afghanistan noi ci staremo a lungo». [13] Fabio Mini, la Repubblica 18/1

Note: [1] Lucio Caracciolo, la Repubblica 13/1; [2] Marta Dassù, La Stampa 19/1; [3] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 13/1; [4] Vincenzo Nigro, la Repubblica 15/1; [5] Guido Olimpio, Corriere della Sera 14/1; [6] Alberto Mattioli, La Stampa 19/1; [7] Gilles Kepel, la Repubblica 13/1; [8] Bernardo Valli, la Repubblica 18/1; [9] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 18/1; [10] Gian Micalessin, il Giornale 19/1; [11] Paolo Mastrolilli, La Stampa 15/1; [12] F.Pal., Avvenire 15/1; [13] Fabio Mini, la Repubblica 18/1.