Massimo Gaggi, Corriere della Sera 19/1/2013, 19 gennaio 2013
Perché abbiamo creduto al campione che mentiva sulla storia d’amore e morte - Sui siti Internet e sotto «hashtag» di Twitter come «#teoing», creati per infierire sul campione beffato, trovi immagini come quella di una doccia vuota sulla quale compare il titolo «Foto della fidanzata di Manti Te’o, nuda»
Perché abbiamo creduto al campione che mentiva sulla storia d’amore e morte - Sui siti Internet e sotto «hashtag» di Twitter come «#teoing», creati per infierire sul campione beffato, trovi immagini come quella di una doccia vuota sulla quale compare il titolo «Foto della fidanzata di Manti Te’o, nuda». Oppure lo scorcio idilliaco di una spiaggia deserta che fa da cornice ad un messaggio da amore cieco: «Mi piaci così, stesa sulla sabbia sotto il sole; non vedo l’ora di raggiungerti». Sono migliaia i messaggi beffardi che da un paio di giorni i ragazzi americani mettono in rete. Reazioni sarcastiche alla scoperta che la «love story» — amore struggente, malattia e morte come nell’omonimo romanzo di Erich Segal e relativo film — del campione dei campioni del college football era una relazione fasulla. Nello scorso autunno la star del Notre Dame, squadra dell’omonima università dell’Indiana, aveva pianto in poche ore per la morte dell’amatissima nonna e della fidanzata Lennay Kekua, sopravvissuta miracolosamente a un incidente automobilistico solo per morire poco dopo di leucemia (come la protagonista di «Love Story», interpretata 42 anni fa al cinema da Ali MacGraw). «Se n’è andato l’amore della mia vita» aveva detto lo studente-«linebacker» originario delle Hawaii. Poi era sceso in campo giocando straordinariamente bene e trascinando la sua squadra alla vittoria del titolo. Commozione e ammirazione per l’uomo e l’atleta: il professionista col cuore infranto che non si fa piegare dalla disgrazia. Salvo che Lennay Kekua, si scopre ora, non è mai esistita: è una creatura digitale costruita su Internet usando l’immagine di un’altra donna — Diane O’Meara, californiana che lavora nel marketing — e una rete di messaggi sui social network e di telefonate. Tutto orchestrato, a quanto pare, da Ronaiah Tuiasosopo, un ragazzo californiano anche lui con un passato nel football. «Manti è vittima di un’elaborata burla» lo difendono l’università e i suoi fan. «Macché, è lui che ha architettato tutto per farsi pubblicità o con altri scopi» reagiscono gli scettici. Molti siti come Boston.com ipotizzano che Manti, 21enne mormone, abbia inventato la storia per qualche tortuosa esigenza psicologica o per nascondere una presunta omosessualità. Altri pensano che la storia servisse a difenderlo dalle «supporter» troppo appassionate. Lui, a parte un imbarazzato comunicato in cui ribadisce di essere vittima di raggiro, fino a ieri sera taceva. Avrà molto da spiegare, non solo perché la burla era grossolana e piena di incongruenze, ma anche perché ne è stato quantomeno complice: il giocatore era stato informato il 6 dicembre che Kekua non era mai esistita, ma, nonostante ciò, ha continuato a dare interviste nelle quali ricordava con toni struggenti la sua storia d’amore. Una storia declinata in vari modi: con qualche giornalista Manti aveva accennato ai suoi incontri con Kekua, ad altri aveva detto che la relazione si era sviluppata solo tra pc e telefono. Altri «indizi di reato»: il padre del giocatore ha detto che la fidanzata-fantasma era andata più volte a trovare Manti durante i soggiorni nella casa di famiglia alle Hawaii. E Tuiasosopo, l’architetto della burla, un quarterback di 22 anni, è un vecchio amico di Diane O’ Meara, la ragazza delle foto (che dice di non sapere nulla) e ha frequentato per un certo periodo Manti. Ora lavora in una comunità religiosa come musicista «gospel». Una ragazzata goliardica che la fama dell’atleta trasforma in caso nazionale? La storia appassiona l’America e merita l’attenzione anche di chi non ama il football perché fa salire la stampa sul banco degli imputati e apre gli occhi del pubblico sulla diffusione online di identità inventate. Fenomeno che ha un nome: «catfishing», derivato dal film di due anni fa («Catfish») che racconta di un creatore di identità virtuali. Il caso imbarazza giornali e tv che si sono bevuti per mesi una storia inverosimile (e giudicata falsa da molti in rete), fino a quando la verità è emersa grazie al sito Deadspin.com. Storia di sport e d’amore troppo bella per essere sottoposta al cinico scrutinio dei cronisti è l’accusa ai «media» tradizionali. Colpevoli di aver ignorato l’universo delle storie inventate in rete: un «mondo parallelo» di relazioni incrociate tra identità reali e virtuali che ha un suo «reality» su Mtv con lo stesso titolo (Catfish). Palcoscenico per i personaggi più diversi: dalle mogli che mettono un amante elettronico tra le braccia della rivale che insidia il marito, a uomini che alimentano una storia in rete spinti dalla solitudine. E che poi rinviano all’infinito l’incontro fisico con la partner per paura di un confronto con una realtà che rischia di rilevarsi inesistente o meno suggestiva del romanzo costruito online (l’81% di chi va su siti di ricerca del partner mente su peso, età o statura). «Mescolare identità reali e immaginarie è pratica comune» sostiene Andrew Jarecki, produttore del documentario del 2010 e dello show di Mtv. «Era inevitabile, prima o poi, il coinvolgimento di qualche personaggio noto, con la nascita di un caso». Un gioco di specchi delle identità, l’ultimo regalo della civiltà digitale.