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 2013  gennaio 19 Sabato calendario

Gallinari, il Br che ebbe una seconda chance - «Di notte in quella stanza piccolissima mancava l’aria

Gallinari, il Br che ebbe una seconda chance - «Di notte in quella stanza piccolissima mancava l’aria...». Parliamo da quasi 2 ore, davanti a un registratore, nella sua casa di Reggio Emilia. Un dialogo difficile - a tratti aspro - con l’uomo che mi sta di fronte: Prospero Gallinari, uno dei capi storici della Brigate Rosse, il terrorista che fece parte del commando che sterminò in via Fani i 5 uomini della scorta di Aldo Moro e per 55 giorni fu il suo carceriere. Ha 3 condanne all’ergastolo, Gallinari, dal 1999 è in detenzione domiciliare perché gravemente malato di cuore. «La maggior parte di chi si è occupato della storia di quegli anni - scrittori, giornalisti, scribacchini - ha estrapolato un fatto, un crimine dal contesto storico e sociale», attacca salvando il solo Giorgio Bocca. «Non eravamo un fardello isolato, minoritario. Alla fine della “campagna di primavera “, dopo l’assassinio di Moro, migliaia di persone bussarono alle nostre porte per entrare nell’organizzazione. Fu un passaggio epocale: o stavi con lo Stato e il Pci o conleBroandaviabucarti.Vipiaccia o non vi piaccia era l’Italia in quegli anni, altrimenti un’organizzazione come la nostra non avrebbe potuto restare in piedi per tanto tempo». Gallinari è morto lunedì mentre si recava a lavorare. Ero andata a intervistarlo per «La Stampa» all’uscita delsuolibro(«Uncontadinonellametropoli» Bompiani, 2006); mi raccontò come, dopo gli anni di prigione, al ritornonellasuaReggiosisentivacircondatodatantoaffetto;accantoaveva la sua compagna. «Lei ha avuto una seconda chance», gli feci notare. Tacque. Ora, la notizia della sua morte è scivolata via - un fantasma del passato - tra vergognose esaltazioni in rete del brigatista mai pentito e i silenzi di chi ha troppa voglia di dimenticare. Filo rosso. I più giovani - Gallinari ne era consapevole - ignorano la sua tragica parabola di figlio di mezzadri cresciuto nella Reggio comunista affascinato dai discorsi sulla «Resistenza tradita», del ragazzo presto in rotta con i responsabili del partito che si arruola nella lotta armata fino ad ammettere la sconfitta solo nel 1988 con una dichiarazione collettiva. Tutt’altro che da esaltare la sua voce cosìdiversadaquelladicertiexterroristi («In carcere ci accusarono di essere infami; da pentiti hanno scritto lacrimevoli libri sui cadaveri che avevano fatto») oltre a confermare, con buona pace di certe letture sociologiche, che il terrorismo fu un fenomeno politico, è una cruda testimonianza su come, in nome di una folle ideologia, si arrivi a uccidere uomini ridotti a simboli. Rivendicava: «La politica ha sempre guidato le nostre scelte; la nostra è stata una battaglia politica interna al movimento operaio; eravamo clandestini per lo Stato non per le masse. Misteri? Pur di non accettare la storia in Italia s’inventano pagine oscure». Puntoacapo,anchesulcasoMoro. «Quando Moretti scrisse che era stato lui e non io a sparare mi ritrovai da mostro quasi un martire. Ridicolo! Io c’ero, io mi dichiaro colpevole. Siamo tutti responsabili di quella storia. Chi, in quel momento, ha avuto in mano la pistola o lo skorpion ha semplicemente svolto un compito all’interno dell’organizzazione». Un «compito»: usò questa parola Gallinari. E ancora. «Hai il mal di stomaco ma devi andare. Il soldato non guarda mai in faccia l’uomo a cui spara, per citare De Andrè. Solo l’assolutezza della politica, il distacco assoluto con l’individuo, può darti la forza di prendere la decisione dispararequelcolpo».MaCasalegno, Moro: erano tutti uomini inermi! Cosa ricorda di Moro? Gli chiesi. Fu il solo momento -oltre al commosso pensiero del padre, un vecchio comunista che non aveva mai accettato le sue scelte-incuiilsoldatoGallinarisiconcesse un briciolo d’umanità. «Di notte», disse parlando al presente, «in quella stanzetta piccolissima manca l’aria. La situazione è complicata: non si può usare il ventilatore per evitare rumori sospetti. Tra me e lui c’è un rapportointenso.Aprolaporta,storischiando grosso con l’organizzazione. Se succede qualcosa me ne assumo la responsabilità».