Enrico Deaglio, il Venerdì 18/1/2013, 18 gennaio 2013
QUEI NUOVI BOSS SEMPRE PIÙ AVVOLTI DAL MISTERO
Con Pietro Grasso «icona» dei Pd e Antonio Ingroia capolista ovunque nella lista che porta - a caratteri cubitali - il suo nome, la «lotta alla mafia» inaugurerà il parlamento della terza Repubblica. Il procuratore nazionale e il pm titolare dell’inchiesta sulla trattativa (presunta, ben s’intende) tra lo Stato e Cosa Nostra saranno gli enzimi che sveglieranno la classe politica contro il mostro che avvelena l’Italia salendo dal feudo siciliano verso le ricche pianure del Nord?
Possibile, ma francamente non probabile; per diverse ragioni. La prima è che i due non si sopportano. Grasso pensa che Ingroia sia un malato di protagonismo e di ideologia, incapace di condurre inchieste solide e destinato quindi alle sconfitte in aula; Ingroia pensa che Grasso sia un magistrato pavido e compromesso con il potere e che abbia ottenuto il posto di procuratore nazionale a danno di Gian Carlo Caselli, contro il quale il governo Berlusconi emanò una serie di provvedimenti contra personam.
La vita di entrambi si è svolta finora nella Procura di Palermo, uno dei luoghi più misteriosi e più pericolosi della nostra geografia politica. Qui nel secolo scorso cinquanta tra giudici e investigatori animati dalla forse troppo ingenua idea di sconfiggere la mafia, sono stati uccisi. Per i corridoi del palazzo hanno passeggiato, in toga, Corvi, Spie, Giuda, servitori infedeli o, semplicemente, dei tontoloni.
Giovanni Falcone non era affatto amato dai suoi colleghi (e lo sapeva benissimo) e nemmeno lo era Paolo Borsellino, che se ne accorse proprio poco prima di essere ucciso. Sulla morte di quest’ultimo, addirittura dopo vent’anni, i suoi colleghi non sono riusciti a trovare la verità, lasciando aperto ogni possibile scenario. Eppure, le loro statue ornano il palazzo. E, naturalmente, sia Grasso che Ingroia, nell’annunciare la loro discesa in campo, fanno riferimento ai due martiri, arruolandoli come testimonial e ispiratori della loro decisione. Su cosa sia la mafia oggi, non dicono molto. Né, peraltro, nessuno glielo chiede. Il paradosso è che la questione di cui i due si occuperanno - i terribili rapporti tra politica e crimine - vede proprio nella procura di Palermo uno dei gangli del mistero. Se vent’anni fa l’imputato era Andreotti (una storica indagine lo portò alla sbarra come il referente politico della mafia, ma poi, ipocritamente, lo assolse), oggi l’inchiesta sulla «trattativa» è di spessore infinitamente minore. Però... la maionese è impazzita. Il presidente Napolitano è stato intercettato; la Corte Costituzionale ha ordinato di distruggere i nastri; Ingroia ha avuto il sostegno di 150 mila cittadini convinti che il potere politico voglia bloccarlo e che abbia terribili segreti da nascondere; il procuratore Messineo non ha firmato la sua istruttoria. Ingroia è andato in Guatemala, ma prima aveva intercettato anche il procuratore Messineo, troppo in confidenza con un banchiere indagato per riciclaggio. L’altro procuratore aggiunto, Teresa Principato, ha accusato Messineo di averle bruciato la cattura di Matteo Messina Denaro, mandando in fumo due anni di indagini e intercettazioni. L’Indagine di Ingroia è aggrappata al figlio di Vita Ciancimino, che Grasso invece considera un millantatore. Buon ultimo è arrivato un nuovo Corvo, che ha fatto sapere che i servizi segreti intercettano i pm (in sostanza, la procura di Palermo è la sede di una grande centralino) e il procuratore Messineo dice: «Il Corvo è attendibile, abbiamo aperto un’inchiesta». Sempre lo stesso Corvo (dopo che la notizia è già stata scritta in una decina di libri), afferma che i carabinieri si presero tutti i documenti del covo di Riina e se li portarono via; e il procuratore di nuovo dice che la rivelazione è «attendibile», dimenticandosi che i carabinieri, per la «mancata perquisizione» furono archiviati anni fa proprio dalla sua Procura. Insomma, come avrete capito, la procura di Palermo non è il posto più limpido del mondo.
Pietro Grasso è considerato un «grosso colpo elettorale» di Bersani, per la sua fama di uomo pacato, gentile e molto amato da tutti i politici (persino Dell’Utri, l’unico politico in attività condannato per mafia, gli ha espresso stima). Ingroia è la star di una piccola coalizione, in cui convivono il pittoresco sindaco di Napoli, residui comunisti provenienti dal mesozoico, un Di Pietro in rovinoso crollo di popolarità e persino i Verdi. Cosa li unisca è difficile capire. La sensazione di un’epoca conclusa è forte: i grandi processi, i grandi pentiti, i grandi scenari sono finiti; e con loro l’illusione di battere la mafia per via giudiziaria. Grasso e Ingroia sbarcano nel buen retiro di un Parlamento che con la mafia convive da sempre e che, per conoscerla meglio, istituì una Commissione, nel lontano 1961. Forse saranno chiamati a presiederla. Tutti si augurano che Grasso e Ingroia riescano a fare qualcosa di notevole; tutti sperano che non si mettano a litigare tra loro.