Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 18/1/2013, 18 gennaio 2013
UN DOPPIO GIOCO SFUGGITO DI MANO
Ha prevalso, a quanto pare con un costo umano altissimo, la linea dura degli "sradicatori", coloro che in Algeria hanno in mano il potere e dopo il colpo di stato del ’92 lo hanno esercitato senza limiti in quella battaglia durata un decennio contro gli islamici: 200mila morti, migliaia di desaparecidos, un massacro con orrori indescrivibili che fece di questo Paese un’enorme prigione dominata dalla paura. In Algeria non si negozia, neppure per salvare la vita degli innocenti: è una logica ben nota a chi è stato testimone degli anni di piombo.
I generali prendono le decisioni senza tenere in considerazione le ragioni umanitarie: nessun compromesso che possa essere percepito come un cedimento a chi li sfida, come hanno fatto gli islamisti a In Amenas. L’Algeria, con la Russia il nostro maggiore fornitore di gas, non può permettersi di essere tenuto in scacco nei campi di estrazione, definiti una volta "zone di esclusione", sorvegliate da imponenti apparati di sicurezza. Ma proprio su questi apparati adesso sorgono forti dubbi. Metodi sbrigativi e brutali davanti a nemici spietati, e un tempo applicati a porte chiuse, senza testimoni: ma la tetragona determinazione del regime non si incrina. È stato anche per questo, oltre che per la politica di "riconciliazione nazionale" del presidente Bouteflika, che due anni fa l’accenno di primavera araba ad Algeri è stato prontamente soffocato.
Sul piano internazionale la legittimità del potere viene dall’essere stato capace di limitare il contagio islamico ai Paesi vicini, Marocco e Tunisia, e dagli accordi con gli americani che dopo l’11 settembre hanno arruolato Algeri nella lotta contro Al-Qaeda.
L’Algeria, come la Libia, è una "cassaforte dell’energia" alla quale l’Occidente e l’Italia non possono rinunciare. Eppure proprio la guerra del Mali con l’intervento francese, appoggiato anche da noi, rappresenta un fiasco dei generali "sradicatori". Con la caduta di Gheddafi l’Algeria era rimasta l’unica aspirante al ruolo di potenza regionale, un’ambizione che si sta sfaldando nella crisi maliana. Anche per colpa di un algerino, Mokhtar Belmokhtar, detto il Guercio o l’Imprendibile, ex combattente in Afghanistan e ora capo di una corrente secessionista di Al-Qaeda nel Maghreb, la katiba dei "Fedeli del Sangue": è stato lui a lanciare l’attacco all’impianto.
La crisi si propaga all’Algeria ma è un ritorno di fiamma perché i capi degli islamisti, in quella sorta di buco nero della gepolitica che è il Sahara-Sahel, sono estremisti algerini che hanno trovato nuovi santuari. Secondo alcune interpretazioni il ruolo dell’Algeria in questa vicenda è assimilabile a quello del Pakistan in Afghanistan: l’avanzata islamica è stata dovuta anche al fallimento della politica regionale di Algeri, oltre che alla disgregazione del Mali.
Fino a qualche tempo fa a Bamako si diceva che l’Algeria era parte del problema ma anche della soluzione. Algeri si era opposta a interventi esterni perché riteneva di potere risolvere da sola la crisi. In realtà militari e servizi segreti del Drs dopo aver spinto gli islamisti verso il Grande Sud hanno pensato di manipolarli per estendere l’influenza di Algeri nel Sahel. Uno dei personaggi di questa vicenda è Iyad Ag Gahli, un tuareg nazionalista poi convertito all’Islam radicale e capo delle milizie Ansar Eddine: è descritto come vicino agli algerini, con un ruolo chiave nella liberazione di Rossella Urru. Gli algerini prima hanno trattato con la guerriglia poi la situazione è sfuggita di mano, spingendo i francesi a intervenire, e ora si sono trovati di nuovo in prima linea sul fronte di casa. Hanno quindi reagito con i metodi che conoscono: terra bruciata. Ma la partita tra il Sahara e il Sahel è lunga e ancora aperta.