Eugenio scalfari, l’Espresso 18/1/2013, 18 gennaio 2013
Due giornali e la battaglia continua – ["Repubblica" ha compiuto 37 anni. "l’Espresso" esiste da quasi 60
Due giornali e la battaglia continua – ["Repubblica" ha compiuto 37 anni. "l’Espresso" esiste da quasi 60. La società italiana nel frattempo è cambiata ma molti vizi sono tuttora radicati. Quindi dobbiamo ancora lavorare. Per tenere alti i nostri ideali] Un caro amico e collega mi ha ricordato lunedì scorso che ricorreva il giorno di fondazione di "Repubblica", il 14 gennaio 1976. Me ne ero scordato, sono passati 37 anni da allora, non è un anniversario tondo ma è pur sempre una ricorrenza importante. La sede del giornale era in piazza Indipendenza e occupava due piani dell’edificio. Nei piani superiori c’era il "Corriere dello Sport"; nell’interrato la tipografia con le linotype che componevano i caratteri e il bancone dove s’impaginavano le colonne di piombo. Con una rotativa "offset" che tirava 20 mila copie l’ora. Un’altra rotativa era in funzione a Milano. La redazione contava 66 redattori, una decina erano professionisti di notevole livello, gli altri erano giovani alle prime armi. Gianni Rocca era il caporedattore, alla guida dei vari servizi o in funzione di inviati e commentatori c’erano Giorgio Bocca, Sandro Viola, Giorgio Signorini, Mario Pirani, Gianluigi Melega, Eraldo Gaffino, Enzo Golino, Rosellina Balbi, Fausto De Luca, Orazio Gavioli, Franco Recanatesi, Paolo Guzzanti, Giovanni Valentini, Edgardo Bartoli, Corrado Augias, Natalia Aspesi, Mauro Bene. Più tardi arrivarono Bernardo Valli, Giampaolo Pansa e Gianni Brera. IL PRIMO NUMERO VENDEMMO 300 mila copie. Poi le vendite calarono attestandosi sulle 70 mila e lì restarono ferme per due anni. Iniziammo a risalire nel ’78 quando cominciarono gli anni di piombo. Quattro anni dopo raggiungemmo il "Corriere della Sera", poi lo superammo. Nell’85 arrivammo al "top" con 800 mila copie vendute. Tempi lontani, tante cose sono cambiate da allora nel mondo e in Italia. Ma anche all’inizio di "Repubblica" la nostra società stava cambiando: emergeva una gioventù da poco reduce dal Sessantotto, il movimento femminile aveva diffuso i suoi valori specie tra le giovani, il laicismo disputava il terreno alla tradizione cattolica, la classe operaia aveva affermato il suo ruolo di forza portatrice di diritti essenziali. Il Partito comunista stava uscendo dal ghetto in cui era stato e si era volutamente confinato e scopriva la democrazia e il mercato. "Repubblica" dette voce a questi ceti emergenti all’insegna di alcuni principi che furono da allora un patrimonio ideale e trasversale per una generazione portatrice di speranze e di futuro: innovazione, moralità, libertà, eguaglianza. IN UN’ITALIA GUIDATA da trent’anni dalla Democrazia cristiana quei principi si erano affacciati solo timidamente; la classe dirigente aveva una visione del bene comune certamente democratica ma intrisa di moderatismo conservatore. La stampa quotidiana rifletteva in gran parte quella visione. Noi introducemmo una radicalità non solo nei contenuti ma anche nella forma editoriale: dal formato del giornale alla scansione degli argomenti, al linguaggio dei testi e all’icasticità dei titoli. Abolimmo la "terza pagina", spostammo la cultura al centro del giornale, demmo largo spazio all’economia, portammo il principale fatto del giorno nel primo piano di sfoglio. La formula fu quella di produrre un settimanale che uscisse tutti i giorni. Questa fu la novità che ruppe il conformismo mediatico, privilegiò il retroscena rispetto al sussiego spesso ipocrita dell’ufficialità e della retorica. Del resto venivamo dall’esperienza de "l’Espresso", il settimanale apparso in edicola 21 anni prima di "Repubblica", del quale il quotidiano fu il naturale sbocco editoriale. "L’Espresso" - visto che siamo in tema di ricordanze - era nato il 5 ottobre del 1955 in quatto stanze di via Po, con una redazione di sette giornalisti. Da quelle quattro stanze e dal "lenzuolo" (così chiamavamo un settimanale che indicava già nel formato il presagio del quotidiano) diretto da Arrigo Benedetti, cominciò un’avventura che ha contribuito all’evoluzione sociale e culturale del Paese. Questo è l’aspetto positivo di quanto è accaduto, ma non sufficiente. La società è certamente cambiata, le plebi contadine si sono inurbate, le donne hanno conquistato diritti, la magistratura ha rafforzato la sua indipendenza, ma molti vizi antropologici del nostro Paese sono tuttora radicati e il tempo trascorso ne ha addirittura imputridito le radici. Perciò c’è ancora e più che mai bisogno di tenere alti gli ideali per i quali da sessant’anni lavoriamo e combattiamo. Auguri a tutti di buon lavoro e una buona vita.