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 2013  gennaio 18 Venerdì calendario

C’è un TOPO in ospedale [Da Boston Animali infettati con diverse cellule cancerogene. Per testare le cure

C’è un TOPO in ospedale [Da Boston
Animali infettati con diverse cellule cancerogene. Per testare le cure. È la via maestra per cercare nuovi farmaci. Con un protagonista: italiano] –

L’ospedale del topo è a Boston, all’ottavo piano del nuovissimo edificio che ospita il centro di ricerca sui tumori del Beth Israel. L’ascensore arriva sin lassù solo se sei autorizzato da una carta magnetica di riconoscimento e la porta d’ingresso conduce in una stanza dove comincia il rito della vestizione: tuta bianca da laboratorio completata da sovrascarpe, guanti, cuffia e mascherina. Una volta indossati i capi obbligatori, bisogna sostare qualche secondo in un cilindro trasparente chiuso ermeticamente che soffia aria compressa da decine di buchi. Solo allora si apre la porta che conduce alle stanze dove vivono migliaia di topolini. Sono chiusi in scatole trasparenti, in cinque per ciascuna, collegate a un sistema automatico di alimentazione.
Tutti e cinquemila i topi ospiti di questo centro clinico e di ricerca sono ammalati di cancro o lo saranno molto presto. Le più diverse patologie: dalla prostata al polmone, dal sangue al cervello. I topi sono i pazienti utilizzati per verificare le evoluzioni del cancro e, soprattutto, per testare nuovi medicinali. A capo dell’ospedale del topo c’è un italiano, si chiama Pier Paolo Pandolfi, è alla soglia dei 50 anni e si deve alle sue scoperte se uno dei tumori più maligni - la leucemia acuta promielocitica, meglio conosciuta con l’acronimo di Lap - è attualmente trattabile.
L’idea dell’ospedale del topo come centro di ricerca sull’evoluzione del cancro e di test sui farmaci è ormai riconosciuta come una via maestra nella lotta alla malattia. Alla fine di novembre, il National Institute of Health, il braccio operativo del ministero della Salute degli Stati Uniti nel campo della ricerca biomedica, ha organizzato una riunione con Pandolfi e con altri ricercatori di fama internazionale per discutere la possibilità che in rapporto diretto con grandi ospedali americani vengano create una serie di cliniche del topo con l’obiettivo di allargare in modo esponenziale la ricerca e i test, un modo per arrivare prima a risultati positivi per l’uomo (esiste anche un progetto di creare una struttura del genere a Roma, come si può leggere nel riquadro a pagina 92).
«L’ospedale del topo è basato sul concetto del malato surrogato», racconta Pier Paolo Pandolfi in un incontro con "l’Espresso" nel suo ufficio al Beth Israel Deacones Cancer Center di Boston: «Il malato surrogato è il topo che noi ingegnerizziamo. Praticamente, lo creiamo e lo inventiamo perché esprima in modo eccessivo i geni che causano o sopprimono il cancro nell’uomo». Come fa il topo a sviluppare il cancro? Spiega Pandolfi: «Si prende un ovocito fertilizzato del topo e con un micro ago si inietta nel nucleo un pezzo di gene preso dal tumore umano che così viene integrato nel genoma del topo. Quando nasce e poi cresce, l’animale sviluppa il cancro allo stesso modo dell’uomo, spontaneamente. Se gli mettiamo l’oncogene umano nella prostata, al topo viene il tumore alla prostata ed è indistinguibile, morfologicamente e tecnicamente, da quello della prostata umana. La cellula malata del topo e quella dell’uomo non presentano alcuna differenza quando vengono esaminate al microscopio».
Questa è stata la scoperta che Pier Paolo Pandolfi ha fatto nella seconda parte degli anni Novanta quando era un ricercatore all’università di Perugia: isolare una cellula tumorale umana (nel suo caso quella della Lap), iniettarla nell’ovocito di un topo e scoprire che quel tumore non solo si sviluppava, ma la malattia si presentava in modi differenti a seconda di quali geni o combinazione di geni la facevano emergere. Di qui i test con un solo farmaco o con diversi farmaci hanno portato a individuare per ogni specie e sottospecie di cancro la giusta terapia.
Questa scoperta, resa nota attraverso la pubblicazione che era stato creato il primo modello di topo con la leucemia promielocitica acuta, ha automaticamente iscritto Pandolfi nel club dei ricercatori e giovani scienziati italiani che per continuare sulla strada intrapresa sono andati all’estero (e lì sono rimasti) perché il Sistema Italia non è in grado - culturalmente, politicamente e finanziariamente - di offrire a chi, per capacità, impegno e meriti di studio sta un passo avanti agli altri, un percorso professionale che non sia quello regolato dalla cieca burocrazia del ministero della Pubblica Istruzione e delle varie università. Così, Pandolfi prima è andato in Inghilterra, poi ha trovato posto in uno dei centri di ricerca più importanti del mondo, lo Sloan Kettering di New York, infine è arrivato al vertice del centro di ricerca del Beth Israel che è uno dei cinque ospedali della Harvard Medical School. Oggi dirige il centro di tumori, è alla guida della ricerca genetica, è il capo della Divisione Genetica del Dipartimento di Medicina ed insegna patologia alla Harvard Medical School.
Eppure, la strada che aveva imboccato a vent’anni tutto prevedeva tranne che la medicina e la ricerca su geni e cancro. Romano, figlio di due professori universitari specializzati in materie umanistiche, Pandolfi seguì la strada tracciata dai genitori studiando filosofia e scienze umane. Racconta Pandolfi: «Ho studiato pianoforte fino al quinto anno di conservatorio e mi sono iscritto a filosofia perché mi piaceva la scienza, l’epistemologia, la filosofia del linguaggio. Poi, è accaduto qualcosa che ancora oggi è difficile spiegare se non attraverso la passione per la scienza: quando lessi che avevano scoperto gli oncogeni, l’idea di questi geni che sviluppano il cancro mi affascinò e decisi di mollare filosofia e iscrivermi a medicina. Da subito mi infilai in un laboratorio, facevo esami e passavo ore in laboratorio. E smaniavo perché mi offrissero la possibilità di andare all’estero».
Quasi alla fine del percorso che porta alla laurea in medicina, Pandolfi impresse un altro cambio decisivo alla sua vita. «Seppi che un giovane ricercatore di successo, Pier Giuseppe Pelicci (oggi è condirettore scientifico dell’Istituto Oncologico Europeo, ndr.), era rientrato dagli Stati Uniti stabilendosi a Perugia. Andai a parlargli e lui mi propose di finire gli studi in quella città». Pandolfi ne parlò con i genitori. «Mia madre fu abbastanza comprensiva, mio padre disse che gli sembrava una follia cambiare università l’ultimo anno e mi invitò a laurearmi a poi andare a Perugia. Alla mia insistenza, replicò dicendo che tutte le spese avrei dovuto sostenerle io, lui mi faceva solo un prestito da restituire». E così fu, da Roma a Perugia, laurea e laboratorio, l’incontro con la futura moglie anche lei ricercatrice e oggi con lui alla Medical School di Harvard, la frenesia di lavorare sugli oncogeni e di sperimentare ogni nuova idea.
Da Perugia si spostò a Londra per un dottorato al National Institute for Medical Research, due anni per progredire nel lavoro cominciato in Italia. Ancor prima di chiudere il biennio, ricevette l’offerta di trasferirsi negli Stati Uniti in uno dei centri più noti per le ricerche e la cura dei tumori. A New York, allo Sloan Kettering, Pandolfi trovò sistemazione nel dipartimento di Human Genetics. «Ero al secondo anno di dottorato e mi hanno affidato un laboratorio strafinanziato e il mandato era di fare modelli di cancro nel topo. Rimasi sorpreso dalla apertura mentale del mondo scientifico americano e dalla capacità di investire sui giovani». Pandolfi fece quello che sapeva fare meglio, lavorare in laboratorio. «La svolta è arrivata quando sono riuscito a convincere i clinici a usare sugli uomini i farmaci che funzionavano sui topi. In particolare c’era un medico che veniva alle nostre riunioni, chiedeva sempre quali passi in avanti avessimo fatto: era così aperto di mente che quando capì che i topi erano modelli fedeli e che rispondevano ad alcuni farmaci, ha avuto il coraggio di usare le stesse combinazioni farmacologiche sugli uomini. Ha funzionato e in quel momento possiamo dire che la Lap è stata eradicata ed ha finito di essere una malattia per cui si muore. Lì, allo Sloan Kettering, è nato nello stesso momento il concetto di ospedale del topo».
Gli esperimenti, le pubblicazioni, i trial clinici positivi. La via del successo cominciò ad essere ben delineata per Pier Paolo Pandolfi. La prova sta nell’offerta che arrivò dalla Harvard Medical School, il centro di ricerca sul cancro del Beth Israel. «Fu come se mi offrissero la luna, la direzione scientifica di tutto il centro, mentre a New York ero solo il responsabile del mio gruppo. In più, finanziamenti enormi alla ricerca e uno stipendio molto alto». Per capire quanto valga il cancer center del Beth Israel bisogna sapere che il 90 per cento dei fondi federali destinati alla ricerca finiscono tra la California e Boston e di questo 90 per cento il 70-80 per cento va alla comunità scientifica del Massachusetts. «L’ospedale del topo ha ricevuto un finanziamento iniziale intorno ai 4 milioni di dollari e il mio gruppo di lavoro ha un budget di quasi 3 milioni di dollari annuali, una trentina di persona tra cui alcuni italiani. Il Cancer Center dispone di una quota notevole del budget dell’ospedale che complessivamente vale 1,2 miliardi di dollari». A tutto ciò vanno aggiunte donazioni proveniente da iniziative filantropiche per un valore che varia annualmente tra i 5 e i 10 milioni di dollari.
L’ospedale del topo, che replica in tutto e per tutto l’ospedale per gli uomini, perché esistono tutte le attrezzature, dalla Tac alla risonanza, che si trovano nei reparti oncologici tradizionali, e poi le sale operatorie, i laboratori di analisi, ha un costo solo per il mantenimento dei pazienti surrogati che si aggira intorno ai 2 milioni di dollari. «Ogni gabbietta con 5 topi costa intorno ai 2 dollari al giorno e in questo momento ce ne sono 3 mila di queste gabbiette». Ma sono costi di gran lunga inferiori a quelli da sostenere se al posto dei topi fossero usati altri animali. Inimmaginabili sarebbero i costi (e i tempi) se tutte le sperimentazioni dovessero essere fatte sugli uomini. In termini di spesa l’ospedale del topo costa uno mentre quello dell’uomo cento. I risultati che sono già stati ottenuti confermano che questa è la strada da percorrere. Anche nel rapporto con le aziende che forniscono i farmaci da testare. «L’idea da seguire per il futuro è di fare delle partnership pubblico-privato con le case farmaceutiche che pagano una specie di abbonamento iniziale all’ospedale del topo e poi pagano in funzione di quanto utilizzino la struttura».
Il cancro è la malattia dei nostri tempi e sarà sempre più presente nella nostra società perché è legata alla vita che si allunga. Ma la ricerca sta facendo progressi importanti e il dato che lo dimostra è la diminuzione della percentuale di decessi. «Gli ultimi dati raccontano che il numero totale dei morti resta lo stesso a fronte di un numero maggiore e in crescita di casi. Questo indica che le cure funzionano». Pandolfi spiega che cosa è cambiato negli ultimi vent’anni ricorrendo a un paragone automobilistico. «Se non sai come funziona il motore di una macchina, quando si rompe puoi solo cambiarlo, ed è quello che abbiamo fatto con i tumori all’inizio, ovvero rimuoverli chirurgicamente o bombardarli per cercare di uccidere le cellule malate. Adesso sappiamo che il motore dell’uomo è fatto di mille pezzi, che se ne può rompere uno o più in serie e conosciamo alcune terapie per riparare i singoli pezzi. L’ospedale del topo ci aiuterà ad avere cento, mille, diecimila modi di riparare le singole parti del motore umano senza rottamarlo».