Paolo Biondani, l’Espresso 18/1/2013, 18 gennaio 2013
Così va all’asta l’Italia fallita -Interi palazzi. Ferrari. Mobili antichi. Ritratti del ‘600
Così va all’asta l’Italia fallita -Interi palazzi. Ferrari. Mobili antichi. Ritratti del ‘600. Tutto in vendita a causa dei crac aziendali. Arrivati a livelli record – Un piazzale e due capannoni pieni di auto, moto e furgoni. Un magazzino con centinaia di giacche, pantaloni, camicie e maglioni ancora avvolti nel cellophane, accanto a cataste di condizionatori, elettrodomestici, macchinari industriali. Pile di sedie, scrivanie e materiale da ufficio. Vetrine blindate con distese di gioielli d’oro, argento e pietre preziose. Un salone stipato di mobili antichi e moderni, con quadri a tutte le pareti: ritratti del ’600, paesaggi dell’800, croste inguardabili, poster di Marilyn. File ordinate di trapani, cacciaviti, ventilatori. Confezioni di giochi per bambini. Casse di vini e liquori con etichette che hanno smesso di esistere. Dietro una tenda c’è perfino una fiammante Ferrari rossa, che l’evasore di turno spacciava per auto aziendale, parcheggiata accanto alla leggendaria Mercedes nera con sedili in pelle bianca e targa svizzera intestata all’azienda di uno dei più famosi falliti d’Italia, Lele Mora. Ai piani sotterranei, muraglie di scatoloni con fatture, registri e bilanci documentano l’ascesa e la caduta di mille altre imprese, commerci e uffici spazzati via dalla grande recessione. Redecesio di Segrate, gennaio 2013. Benvenuti al cimitero del made in Italy. In questo "Istituto vendite giudiziarie" si svende tutto ciò che resta delle piccole e grandi imprese che finiscono in bancarotta nel grande e strategico distretto del tribunale di Milano. Prezzi da saldo, anzi da fallimento. Nell’immobile centrale c’è la sala dove si tengono le aste, con il tavolaccio del banditore e le file di poltroncine per il pubblico degli acquirenti. Qui, ogni settimana, va in scena una specie di Spoon River dell’economia travolta dalla crisi: c’era una volta la premiata fabbrica ambrosiana di vestiti, la ditta di giocattoli, il negozio di elettronica, lo studio pubblicitario, l’agenzia immobiliare. Tutti sepolti sotto montagne di debiti, che la legge civile prevede di ripagare con queste vendite pubbliche: i ricavi vanno divisi in parti uguali tra la massa dei creditori rimasti senza garanzie. Almeno qui, alle aste dei fallimenti, la recessione fa crescere gli incassi? «Continua ad aumentare l’offerta di beni che mettiamo in vendita, ma i prezzi scendono in misura anche maggiore», spiega Albino Bertoletti, amministratore della società privata che da anni gestisce la concessione per le vendite giudiziarie di Milano: «Con la crescita del numero di imprese che vanno in bancarotta, aumentano i patrimoni da mettere all’asta, ma la gente ha meno soldi da spendere, per cui compra di meno e punta al massimo ribasso». Così i creditori restano al verde. E i fallimenti diventano una valanga. Nei primi nove mesi del 2012 l’Italia ha raggiunto il record storico di 55 mila chiusure di aziende. Come dire che ogni giorno sono sparite più di 200 imprese. «Sono in aumento tutte le forme di uscita dal mercato», sottolinea Guido Romano, capo dell’ufficio studi del Cerved Group: «Solo tra gennaio e settembre abbiamo contato quasi 9 mila fallimenti, 1.500 procedure alternative e ben 45 mila liquidazioni. La recessione colpisce più gravemente il settore dell’edilizia, il sistema moda e a sorpresa, dopo gli anni del boom di nuove imprese, anche le energie rinnovabili». Di fronte a una crisi epocale, il problema dei dissesti aziendali dovrebbe essere al centro dell’agenda politica: come ridurre il contagio? Per evitare che ogni azienda malata mandi in crisi tante imprese sane, bisognerebbe ricavare più soldi possibile dai fallimenti. A Milano, capitale degli affari e del diritto dell’economia, quanto riescono a incassare i creditori? «In media, meno del 5 per cento», è la sconsolata risposta del giudice milanese Roberto Fontana, uno dei magistrati più impegnati nella riorganizzazione dei tribunali fallimentari. Oggi, dunque, chi attende un pagamento da un’azienda dissestata deve aspettarsi di vedere bruciati 95 euro su cento. Un’enormità, che non ha paragoni nei paesi occidentali. La conseguenza è che il passivo dell’azienda fallita si propaga come un incendio alle imprese fornitrici, che perdono quasi tutti gli incassi per prodotti già consegnati; ai soci e finanziatori, che vedono sfumare i loro investimenti nell’economia reale; al popolo dei lavoratori che restano senza paga. La crisi era iniziata in America nel settembre 2008 dalla finanza sregolata e dalla bolla immobiliare. Oggi la stessa città di Milano sembra quasi una gigantesca asta fallimentare: i quartieri sono disseminati di palazzi, uffici, capannoni e terreni che appartenevano a società dissestate e che oggi vengono gestiti dai curatori, in vista della vendita giudiziaria. In questo momento il crac più rovinoso è la bancarotta delle società immobiliari della famiglia Ligresti, che nonostante i favolosi contratti con le assicurazioni consociate del gruppo Sai-Fondiaria hanno accumulato un passivo già accertato di 436 milioni di euro, con altri 30 in fase di verifica. Il fallimento dell’ex re del mattone basta da solo a coprire la mappa di mezza metropoli: uffici e appartamenti in centro, cascine e terreni a sud di Milano, schiere di palazzine nella zona nord (dove finirà all’asta, tra l’altro, la villa di via Villani affittata all’inquilino Formigoni), un intero grattacielo in costruzione nell’area Garibaldi, svariate partecipazioni in società-satellite. Ora è tutto in vendita. Ma il crollo del mercato edilizio porta gli esperti a considerare irrealizzabili gli audaci valori dichiarati nei bilanci. E per le piccole imprese che hanno lavorato per Ligresti, si annuncia un bagno di sangue. Tutto questo a Milano, dove i giudici sono accusati di essere fin troppo efficienti e dove il tribunale, sull’esempio di Monza e Torino, ha riformato le vendite giudiziarie con procedure più trasparenti e avvisi su Internet, per bloccare le "cricche" delle aste e garantire più soldi ai creditori. Ma com’è possibile che perfino in Lombardia i fallimenti rendano meno del 5 per cento? Il giudice Fontana ha le idee chiare: «In Italia c’è un sistema normativo che crea un circolo vizioso. Rispetto ad altri ordinamenti stranieri, le situazioni di dissesto aziendale emergono in ritardo, per cui hanno conseguenze più gravi. Il dato di partenza è la sotto-capitalizzazione delle società: con un capitale piccolissimo si possono gestire volumi d’affari sproporzionati e assumere rischi enormi. A questo si aggiunge la sostanziale impunità per il falso in bilancio. In mancanza di serie sanzioni penali, è facile nascondere la perdita del capitale e rinviare di anni il fallimento, aggravandolo. Nel 90 per cento delle nostre procedure le aziende sembrano morire all’improvviso: fino a pochi mesi prima presentavano bilanci in pareggio. Quando noi giudici dichiariamo il fallimento, scopriamo che gran parte dell’attivo è fittizio: crediti inesigibili, magazzini svalutati, valori di carta. Il che complica anche la gestione delle procedure. Alla fine lavoratori e professionisti si dividono quel poco che resta, mentre per i fornitori non pagati si crea un perverso effetto a catena». Le mancate riscossioni colpiscono anche il fisco. «A livello nazionale il buco per l’erario è di decine di miliardi di euro», avverte il giudice. I dati (inediti) sulle tasse mai versate da società fallite sono impressionanti: solo a Milano, alla fine del 2011, il fisco era esposto per ben 4 miliardi e 739 milioni. E con il 2012 la voragine nelle riscossioni è destinata a superare i 5,5 miliardi. Tutti imprenditori sfortunati che non riescono più a pagare le imposte sui redditi? «No», risponde il giudice: «Si tratta di aziende che evadono sistematicamente i contributi previdenziali e società di capitali che non versano l’Iva che hanno già riscosso dai consumatori. In alcuni settori, come pulizie, trasporti, edilizia e rifiuti, più di metà dei fallimenti riguardano società tenute aperte solo a danno dell’erario: si evadono tasse e contributi, si seppellisce il debito fiscale nel fallimento e poi si ricomincia con una nuova ditta». Tanto le tasse poi le pagano gli italiani onesti. Di «una nuova forma di concorrenza sleale che danneggia le aziende sane» ora comincia a parlare anche qualche industriale come Alberta Marniga, titolare della Euroacciai Spa di Brescia, già componente della giunta di Confindustria: «Per gli imprenditori onesti il fallimento è ancora un incubo, ma in Italia purtroppo è diventato normale vedere aziende anche dai nomi altisonanti che fanno emergere di colpo perdite enormi. Che costringono i fornitori di materie prime a svalutare da un giorno all’altro crediti che sembravano sicuri: pensavo di avere 100 e invece mi ritrovo con 20, 10 o niente. Se i bilanci nascondono la polvere sotto il tappeto, tutti gli altri imprenditori restano fregati». Pausa. Sospiro. «Se i politici non smetteranno di fare leggi che favoriscono solo i disonesti, fallirà tutta l’Italia». In Stati come la Francia, informa il giudice Fontana, la legge prevede le "misure d’allerta": «L’imprenditore viene convocato dal tribunale commerciale appena smette di pagare imposte e contributi. Così l’intervento giudiziario scatta quando il debitore è ancora è in condizione di proporre un concordato con percentuali soddisfacenti per i creditori». In Italia se ne parla da anni, ma non si è fatto niente. «Anzi, sono state varate leggi contrarie», tuona l’industriale Marniga: «Il concordato è diventato senza limiti di valore: prima si è abolito il livello minimo del 40 per cento di debiti da pagare, ora basta addirittura una domanda non documentata per sospendere per mesi tutte le procedure esecutive. E così i creditori ci perdono anche il 99 per cento, ma non hanno più alcun rimedio legale. Norme del genere rischiano di far saltare anche le industrie migliori». Il nobile obiettivo di salvare gli indebitati aveva spinto i legislatori, già prima della crisi, a escludere dalle procedure fallimentari i piccoli imprenditori. E a favorire le soluzioni senza magistrati tra le scatole, come le amministrazioni straordinarie vigilate dal governo: ultimo caso, fallimentare in ogni senso, il crac Burani. Intanto i giudici specializzati restano pochissimi e i fallimenti continuano ad aumentare: a Milano solo nove magistrati devono gestire 1.075 nuove procedure del 2012, in aggiunta alle 4.257 già in corso. E gran parte delle crisi ormai si risolvono fuori dai tribunali. «Per le società con più di 2 milioni di attivo, tra gennaio e settembre 2012 le liquidazioni sono aumentate del 27 per cento», quantifica Romano del Cerved. «E il dato più strano è che circa 5 mila aziende sono state chiuse volontariamente anche se avevano i conti in ordine e risultavano pagatrici affidabili». Come sempre è il Nord-est ad anticipare la nuova tendenza: un fenomeno ancora senza risposte. Forse gli imprenditori prevedono un futuro tanto nero da voler evitare il fallimento finché sono in tempo. O forse è iniziata la grande fuga delle aziende sane, che chiudono in Italia per riaprire all’estero. Esportatori di capitali, ma per legittima difesa.