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 2013  gennaio 18 Venerdì calendario

UN PATTO PER IL QUIRINALE

La Grande Corsa nel Pd si è aperta ufficialmente prima di Natale, quando nel partito, a sorpresa, si è venuto a sapere che contrariamente a quanto annunciato durante la campagna per le primarie Anna Finocchiaro sarebbe stata candidata alle elezioni, per l’ottava volta consecutiva. Più sorprendente ancora che la ieratica capogruppo al Senato intendesse lasciare Palazzo Madama per trasferirsi a Montecitorio. Il passaggio da un ramo all’altro del Parlamento avrebbe significato per la Finocchiaro, in caso di vittoria del centrosinistra, l’elezione quasi certa a presidente della Camera. Equilibri e alchimie interne hanno fatto saltare l’operazione e Anna resterà al Senato, destinato a diventare nella prossima legislatura il vero palcoscenico della politica, con tutti i big, da Silvio Berlusconi a Pier Ferdinando Casini a Mario Monti, decisi a esibirsi tra gli scranni di velluto rosso della Camera alta. Ed è da lì che passa il gioco destinato a condizionare ogni mossa, la scelta del successore di Giorgio Napolitano.
Per eleggere il dodicesimo capo dello Stato repubblicano i mille grandi elettori (senatori, deputati, delegati regionali) cominceranno a riunirsi il 15 aprile, quando la legislatura appena eletta sarà iniziata da un mese e presumibilmente sarà già stato nominato il nuovo governo, l’ultimo atto del settennato di Giorgio Napolitano. Ma è a partire da quella casella che ruotano tutti gli organigrammi, soprattutto in previsione di un risultato instabile al Senato, dove i sondaggi segnalano massima incertezza: Pdl e Lega in rimonta nelle regioni-chiave, la Lombardia e la Sicilia, quelle che eleggono il maggior numero di seggi, la lista Monti pronta a esercitare la sua golden share, determinante per fare la maggioranza, il Pd in cui le ambizioni personali sono visibilmente cresciute... E nell’incertezza, ancora una volta, è l’inquilino del Quirinale, che dura in carica sette anni ed è al riparo dalle tempeste politiche, a diventare il punto di riferimento del sistema.
Per Silvio Berlusconi è già materia di campagna elettorale: «Bisogna assolutamente impedire che ci sia un altro presidente di sinistra. Per il Quirinale proporrò un nome cui il Pd non potrà dire di no». Il nome che aveva in testa il Cavaliere era il presidente della Bce Mario Draghi. A lungo corteggiato, un legame con l’ex governatore di Banca d’Italia stabilito a Palazzo Chigi quando i due facevano asse contro Giulio Tremonti. Ma quando è venuto allo scoperto il Cavaliere è stato costretto alla marcia indietro. Nel Pd, invece, per ora non se ne parla. Troppo delicata la questione, troppo lunga la lista dei candidati interni. L’unico a tratteggiare un identikit del presidente che verrà, finora, è stato Massimo D’Alema. «Il capo dello Stato è il motore di riserva che si accende quando le altre istituzioni si inceppano. Il problema è che negli ultimi anni il meccanismo è andato in panne più volte», ha teorizzato l’altra sera, in Campidoglio, di fronte alla platea accorsa alla presentazione del suo libro "Controcorrente", da Gianni De Gennaro a Cesare Geronzi. «Per fortuna gli ultimi presidenti sono stati all’altezza della situazione. Non sono credente, ma c’è stato un disegno provvidenziale», ha aggiunto l’ex premier. I presenti hanno annuito, tra loro, alcuni candidati in pectore: Pier Ferdinando Casini, Gianni Letta, la Finocchiaro, lo stesso D’Alema.
Eppure fino a qualche settimana fa i giochi sembravano già fatti: nessun dubbio, il candidato numero uno, il favorito per la prima carica dello Stato era Mario Monti, il premier super partes, già votato in Parlamento per un anno da una larghissima maggioranza come capo del governo, senatore a vita, riserva istituzionale. La decisione del Professore di schierarsi alle elezioni alla guida di una lista con il suo nome e di una coalizione centrista ha fatto crollare le sue quotazioni. E Monti ne è consapevole:«So che in questi giorni altri si sono rallegrati del mio venir meno dalla corsa», ha commentato. E c’è in effetti chi pensa di aver aumentato le sue chance. L’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, per esempio, non fa mistero di sentirsi in gara. Di più: si sente il candidato più forte del centrosinistra, l’unico nome in grado di mettere d’accordo il Pd (probabile vincitore alla Camera con il premio di maggioranza), il centro di Monti e il Pdl berlusconiano (che punta ad avere la maggioranza del Senato). Amato, insieme a Gianni Letta, doveva entrare nell’autunno 2011 nel governo tecnico in rappresentanza del Pd, l’operazione saltò perché Pier Luigi Bersani non se la sentiva in quella fase di partecipare direttamente al governo con un suo nome, sia pure di area e non di partito. Ma quella decisione ora rafforza la posizione super partes di Amato, essenziale per scalare il Colle in una situazione di stallo. I rapporti con il segretario del Pd sono ottimi: se Bersani dovesse diventare presidente del Consiglio dopo le elezioni del 24 febbraio diventerebbe il king maker delle elezioni presidenziali, in grado di scegliere per il Colle un presidente amico. Ma anche Berlusconi ha un rapporto con Amato di lunga data, risale almeno al 1984 quando il dottor Sottile, all’epoca sottosegretario a Palazzo Chigi di Bettino Craxi, prestò la sua sapienza giuridica per il primo decreto Berlusconi che riaccendeva le reti Fininvest.
Molto più basse le quotazioni dell’altro cavallo di razza del centrosinistra in panchina da anni, l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. In questi anni il suo prestigio internazionale è aumentato, da ex presidente della Commissione Ue è stato nominato inviato in Africa dell’Onu, a sbrogliare i conflitti nel Sahel, ma in Italia inimicizie e rivalità non sono diminuite. «Monti è cattivo quanto Prodi, solo che è più raffinato», dice di lui Berlusconi che non dimentica la doppia sconfitta con il professore di Bologna: poco raffinato ma efficace. D’Alema gli attribuisce la responsabilità della fine traumatica della legislatura 2006-2008. Dopo il voto che aveva fotografato un elettorato spaccato a metà fu per l’intransigenza di Prodi che il centrosinistra chiese le due cariche istituzionali, Camera e Senato, per Fausto Bertinotti e Franco Marini, senza trattare con l’opposizione: l’inizio del muro contro muro con il centrodestra che portò alla catastrofe finale.
Errore da non ripetere, pensa D’Alema, questa volta le presidenze delle Camere vanno condivise, premessa per arrivare all’elezione di un presidente con i voti di uno schieramento più ampio del centrosinistra. Il risiko delle poltrone, intrecciato alla costruzione di una maggioranza di governo in grado di durare per cinque anni. Quella formata da Pd e da Nichi Vendola non basta, ragiona il presidente di Italianieuropei, tanto più se in Parlamento dovesse entrare anche la pattuglia degli arancioni dell’ex pm Antonio Ingroia. L’effetto a catena è già visibile in questi giorni: la concorrenza della lista Ingroia a sinistra erode il consenso di Vendola e lo spinge su posizioni radicali, sulla patrimoniale, sui super-ricchi da spedire all’inferno, sul governo Monti che il Pd ha invece sempre appoggiato. «Serve un patto medio-lungo tra la sinistra e le forze moderate. Un asse di governo», ripete D’Alema. Casini è pronto a sottoscriverlo: «Tranquilli, nella lista Monti che si candida al Senato ho riempito le caselle di nomi di mia fiducia», ha rassicurato gli uomini di Bersani. L’ex presidente della Camera è pronto a fare l’alleanza con il Pd, dopo il voto, quando la breve stagione della propaganda elettorale sarà finita. E non lascerà che sia Monti a trattare con Bersani, intende farlo in prima persona: notizia graditissima ai capi del Pd che si trovano a disagio con il tecnico neofita della politica e che con Casini, al contrario, condividono da decenni linguaggio e codici di comportamento. Da parte del Pd è già un tentativo di dividere la lista Monti, di isolare il Professore qualora alzasse troppo le pretese.
Si comincia con l’elezione delle cariche istituzionali nell’immediato dopo-voto. La presidenza della Camera, in caso di vittoria del centrosinistra, andrà al Pd: con l’uscita da Montecitorio di deputati di lungo corso come D’Alema, Walter Veltroni, Pierluigi Castagnetti la favorita è l’attuale vice-presidente Rosy Bindi, in seconda battuta c’è il capogruppo Dario Franceschini. Mentre la presidenza del Senato toccherebbe a un centrista, lo stesso Casini. Sarebbe lo schema più gradito a D’Alema, la casella del Quirinale resterebbe tutta da assegnare. Ma tra gli uomini di Bersani c’è chi immagina un percorso più tortuoso: le presidenze affidate alle due regine di cuori del Pd, la Bindi alla Camera e la Finocchiaro al Senato, che entrerebbero di diritto in corsa come candidate alla successione di Napolitano: la spinta dell’opinione pubblica per una donna al Quirinale diventerebbe irresistibile, con un Parlamento in cui la presenza femminile sarà di gran lunga superiore che in passato. Per questo la decisione di Bersani di tenere in campo la Finocchiaro non è passata inosservata, è stata letta quasi come un’investitura. Anche perché, nell’analisi del segretario-candidato premier, c’è l’idea che tra le anomalie del ventennio della Seconda Repubblica da chiudere ci sia anche quella di un presidente della Repubblica slegato dai partiti, non più solo arbitro ma più spesso protagonista dello scontro politico. «Bisogna tornare alla normalità», spiegano nel Pd. «Il segretario del partito che vince le elezioni va a Palazzo Chigi, al Quirinale deve essere eletta una personalità che abbia un profilo istituzionale ma che venga dalla politica e che sia in sintonia con il governo, come avviene in Germania». Sembra l’identikit della Finocchiaro, ma potrebbe anche essere tagliato su misura per Amato. Se non fosse che resiste il lodo D’Alema: per durare al governo bisogna stringere subito un patto con i centristi, nessuna tentazione di autosufficienza della sinistra. E dunque alla presidenza del Senato, nel ramo del Parlamento più ballerino, andrà Casini. Mentre al Quirinale serve il garante del patto, il motore di riserva che tutto conosce della politica e che potrebbe trovare l’apprezzamento perfino di Berlusconi: si chiamasse D’Alema?