Guido Ruotolo, La Stampa 18/1/2013, 18 gennaio 2013
Sciopero ad oltranza. L’appello della FimCisl non convince gli altri sindacati, che aspettano l’azienda e il governo al varco
Sciopero ad oltranza. L’appello della FimCisl non convince gli altri sindacati, che aspettano l’azienda e il governo al varco. C’è tensione, è inutile negarlo, all’Ilva di Taranto. In pomeriggio si sono vissuti attimi drammatici. Un gruppo di circa trecento cassaintegrati ha forzato la portineria D e sui bus interni si è diretto nella sala riunione dei sindacati, dove ha preteso che arrivasse il direttore dello stabilimento, Adolfo Buffo. Circa trecento, ma forse anche più, lavoratori disperati soprattutto dell’area a freddo. Le prospettive sono incerte, le indiscrezioni altalenanti. Si aggiungono poi le «provocazioni» dell’azienda che, come ieri, ha fatto chiudere i varchi saldando anelli e montando pannelli all’ingresso, per isolare gli ingressi. E la polveriera Ilva rischia così di esplodere, anche perché di fronte alla collera operaia, i sindacati e l’azienda hanno poche carte da spendersi per tentare di condizionare le reazioni dei lavoratori. L’altra giorno a Milano si è tenuto un importante Consiglio d’amministrazione del gruppo Riva. Silenzio sulle decisioni assunte. A Taranto il clima è pessimo e si sta facendo strada la convinzione che i Riva potrebbero decidere di abbandonare la città. Lo scontro ingaggiato con l’autorità giudiziaria (dall’azienda e dal governo) rischia di diventare suicida. Il decreto «Salva Ilva» trasformato in legge rischia di diventare un boomerang dal momento che ha mancato all’obiettivo fondamentale, quello di far riprendere la produzione, vendere il prodotto che fino a novembre si è accatastato nei capannoni e nei piazzali all’interno dell’acciaieria, e dissequestrare gli impianti dell’area a caldo. Il risultato, invece, è stato che la merce sequestrata è ancora ferma e fino a quando non si pronuncerà la Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzione dei poteri (sollevato dalla Procura) e sui profili di incostituzionalità della legge, rimarranno sigillati in azienda. E l’Ilva comunque dovrà spendere quattro miliardi per applicare l’Aia, l’Autorizzazione integrale ambientale, che prevede il rifacimento degli impianti per salvaguardare l’ambiente e la salute. Tatticamente, i sindacati ieri si sono divisi sulle strategie di lotta. Ma governo e azienda sembrano assecondare la disperazione. Il momento della verità si avvicina. È ormai questione di ore. Come dal primo giorno di questa vicenda giudiziaria, si sono sovrapposti due tavoli che non sono sovrapponibili, quello giudiziario e quello sociale e politico. Dice Antonio Talò, segretario del sindacato con più iscritti in fabbrica, la Uilm: «Anch’io ho la sensazione che i Riva stiano pensando come e quando uscire dall’Ilva. Ma intanto l’azienda annuncia che a febbraio ripartiranno alcuni impianti, come il tubificio Erw. E devo andare a vedere. Martedì incontreremo il presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante, e il giorno dopo a Taranto arriverà il ministro per l’Ambiente Corrado Clini accompagnato dal neo Garante dell’attuazione dell’Aia all’Ilva, Vitaliano Esposito, e il commissario per la bonfica dell’area a Taranto». Finora, il blocco delle merci, del semilavorato, ha fatto saltare il primo lotto della commessa americana da 25 milioni di dollari, per la costruzione di un gasdotto in Oklahoma. E incerto è il pagamento dei prossimi stipendi. «E’ strano poi che l’azienda continui con la cassa integrazione nell’area a freddo - commenta Donato Stefanelli, segretario Fiom - e non anche in quella a caldo. E poi, perché il semilavorato non viene trasformato? C’è un problema di crisi di mercato?». Sono 2.500 i lavoratori fuori produzione, tra cassaintegrazione e ferie forzate. Un numero che potrebbe raddoppiare nelle prossime ore. E ieri la Cassazione ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dai legali del patron Emilio Riva, del figlio Nicola e dell’ex direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso.