Luigi Grassia, La Stampa 18/1/2013, 18 gennaio 2013
Non era mai successa una cosa del genere: quella in Algeria è la peggiore tragedia nella storia del petrolio e del gas e un campanello d’allarme per tutte le compagnie, non solo nel Paese direttamente coinvolto ma in tutta la zona di turbolenze dell’Africa e del Medio Oriente
Non era mai successa una cosa del genere: quella in Algeria è la peggiore tragedia nella storia del petrolio e del gas e un campanello d’allarme per tutte le compagnie, non solo nel Paese direttamente coinvolto ma in tutta la zona di turbolenze dell’Africa e del Medio Oriente. Gli operatori del settore si preparano al peggio e predispongono piani di sgombero; alcuni stanno già portando via in tutto o in parte i loro dipendenti dall’Algeria, così la Total, la Bp, la norvegese Statoil, la spagnola Cepsa. Serpeggia anche l’irritazione per il fallito blitz algerino e per la guerra francese in Mali, due operazioni decise senza dare modo di preparare piani di emergenza agli altri possibili bersagli nella regione. Gli eventuali focolai d’infezione sono molti e non solo nel Nord Africa. Per esempio a grande distanza dall’Algeria c’è la Nigeria dove combattono estremisti islamici che però finora non hanno attaccato le zone dove si estraggono gli idrocarburi. Il petrolio e il gas sono risorse essenziali per i governi africani e anche per l’economia dell’Europa e dell’Occidente tutto; dal Nord Africa partono le arterie che fanno affluire l’energia fino a noi. L’Algeria da sola fornisce all’Italia il 30% del metano di cui abbiamo bisogno. Ieri la Snam a causa degli eventi in Algeria ha già dovuto tagliare del 17% le importazioni da quel Paese. Gli impianti d’estrazione sparpagliati nel deserto sono avamposti strategici dell’economia europea e difenderli (assieme alle migliaia di chilometri di tubi che partono da lì) è necessario. Ma è anche possibile? Carlo Biffani, ex parà della Folgore e oggi direttore di Security Consulting Group (nel 1994 operava come contractor per la sicurezza proprio in una base petrolifera algerina ai confini con la Tunisia, nel pieno della guerra civile), dice che «difendere una stazione petrolifera come quella di In Amenas è complesso. Questi impianti occupano aree vastissime e per definizione sono difficili da controllare». Ci si prova. «Ognuna delle compagnie internazionali impegnate in quelle zone si dota di una struttura di security e di mitigazione del rischio». Biffani si è trovato coinvolto in scontri a fuoco: «Una notte da noi ci fu un tentativo di avvicinamento, respinto dall’intervento armato delle locali forze di sicurezza». In un’altra occasione ci furono rischi anche più seri per i suoi colleghi: «Ci fu un blitz in una base vicina alla mia, alcuni di loro si salvarono correndo sul terrazzo e rimanendo sospesi e non visti, al buio, al cornicione del tetto al quinto piano». Ma quanti sono i tecnici petroliferi occidentali in Algeria? Le compagnie non ne parlano volentieri, ma Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, li valuta in «diverse centinaia». Si può fare qualche ragionamento. «Quelli nel sito di In Amenas erano una cinquantina, e in Algeria si trovano solo quattro o cinque giacimenti così grandi». Si arriva forse a trecento persone, a cui bisogna aggiungere quelle impiegate in altre mansioni, poi il totale va moltiplicato per tener conto degli altri Paesi nordafricani (Tunisia, Libia ed Egitto). Così si sale alle migliaia. Quanto spende l’Algeria per la sicurezza delle risorse? «Mezzo miliardo di euro all’anno», valuta Tabarelli. Non è una cifra enorme: e se anche il costo della sicurezza raddoppiasse, si arriverebbe a un miliardo, cioè a uno sforzo più che sostenibile per un ricco Paese produttore. Quindi, dice l’esperto di Nomisma Energia, «una lievitazione dei costi per la sicurezza non provocherebbe un boom dei prezzi del petrolio e del gas».