Federico Geremicca La Stampa 18/1/2013, 18 gennaio 2013
Il famoso «si stava meglio quando si stava peggio», in politica è un classico, diciamoci la verità
Il famoso «si stava meglio quando si stava peggio», in politica è un classico, diciamoci la verità. E’ raro che qualcuno non vi abbia polemicamente fatto ricorso: e a volte è effettivamente difficile resistere alla tentazione. Si pensi alla parabola del tormentato centrosinistra napoletano (e campano, più in generale) chiamato ora a una delle Grandi Battaglie che - assieme a quelle di Lombardia, Veneto e Sicilia decideranno le sorti del Senato e, con ogni probabilità, la stabilità della legislatura. Da queste parti, prima fu il tempo di Bassolino Re di Napoli e del «rinascimento» della città; poi quello del tandem pigliatutto, con la Jervolino (lei sindaco, lui governatore); quindi, il declino, il precipizio che ha portato - forse inevitabilmente - fin qui: fino a questo gruppo dirigente giovane (e a queste liste elettorali: contestatissima quella per Palazzo Madama), un po’ disorientato tra ras locali, primarie e apparati che resistono. «Undici paracadutati da Roma, e poi vorrebbero che vincessimo al Senato», accusano gli esclusi. E non solo loro, naturalmente. «Hanno fatto delle liste deboli... Perfino il Pci dei tempi andati era più aperto verso la società civile - ha lamentato Antonio Bassolino -. Una volta entrato nella cabina farò molta fatica a mettere la croce sul simbolo del mio partito. Lo farò solo per rispetto alla mia storia». E il filosofo Biagio De Giovanni - amico personale di Napolitano, storico intellettuale comunista che ha lasciato il Pd ed è ora incuriosito da Monti - aggiunge: «La democrazia delle primarie, con l’aggiunta di scelte sbagliate a Roma, ha prodotto delle liste assurde: piccoli ras padroni di tessere e poi gli inviati da Roma, spesso senza nessun rapporto col territorio. Non la vedo affatto bene...». Nella hall del Continental, Enzo Amendola, 38enne segretario regionale del Pd, sorseggia un caffè e intanto sorride: «E pensa se invece non le avessimo fatte le primarie...». Sembra disteso, e si mostra tranquillo: «L’ultimo sondaggio Ipr, istituto serio, dice che siamo avanti: 35 a 32». E sa perfettamente quanto sia decisivo l’esito della Grande Battaglia campana: «Stiamo coordinandoci con Roma. Le quattro regioni in bilico saranno sostenute, ma poi qui ci dobbiamo mettere del nostro». Lui, Amendola, ha cominciato: ma dichiarando guerra a Luigi De Magistris, sindaco della città e tra i leader della lista-Ingroia, alla quale - pure - qui in Campania il Pd chiede benevolenza. «Lui non accetterà mai alcuna ipotesi di desistenza - assicura Amendola -. Sta perdendo il contatto con la realtà, ha mezza città contro, i commercianti, le mamme, i dipendenti comunali... E soprattutto non mi pare affatto spaventato dall’idea di favorire la vittoria di Berlusconi». Perchè sì, anche qui - e come ovunque da vent’anni - il competitor è Silvio Berlusconi. Il quale, considerato che la battaglia in questa regione può esser decisiva - ha tirato fuori dal box il temuto Nicola Cosentino. «Il Cavaliere si è stufato e ha sciolto i cani», ha commentato qualcuno in città... Parente acquisito di diversi camorristi, ex sottosegretario ed ex capo Pdl in Campania, inseguito da indagini e richieste d’arresto, Cosentino dovrebbe combattere (naturalmente) la Grande Battaglia del Senato: numero 3, dopo Berlusconi e Nitto Palma, commissario del partito. Ora, è chiaro che un signore con tanti guai non dovrebbe esser candidato alle elezioni: e infatti Stefano Caldoro, governatore per conto del Pdl, ha provato a dirlo, sentendosi però rispondere - da Berlusconi, certo «Caldoro ha una posizione personale contro Cosentino, vicende locali...». La posta è troppo alta per lasciarlo fermo ai box: e così, nella sfida per il Senato entra con tutto il suo dimostrato peso anche Nicola Cosentino. E quelli che qualcuno, in casa Pd, potrebbe sobriamente definire «gli scagnozzi di Cosentino». Un brutto affare. Come conferma anche Paolo Cirino Pomicino, che di campagne elettorali da queste parti ne sa qualcosa: «E come mai potrebbero rinunciare a Cosentino, Cesaro e uomini così? Vorrebbe dire rinunciare al partito: non lo faranno. E il centrosinistra, per me, ora rischia guai». Lui, invece, Pomicino, per la prima volta è davvero senza partito. Cioè, ne sta ricostruendo uno assieme a Mastella e Gargani (la Dc, naturalmente) ma è ancora frenato dalle solite beghe sull’uso dello scudocrociato: «Esordiremo alle amministrative», dice. E i vostri voti, intanto, dove andranno? «Mah... Magari un po’ qua un po’ là. E guardi che ne abbiamo ancora, sa? Una volta a Napoli ne presi 30 mila mentre ero ricoverato in ospedale...». I voti, appunto. L’ultima volta, nel 2008, per il Senato non c’è stata battaglia: 51 a 34 (col Pdl al 48,7 e il Pd al 29,1). Due anni dopo, alle regionali, altra vittoria del centrodestra (ma con Pdl e Pd in caduta libera: 31,5 il primo, 21,4 il secondo). E la crisi dei due partitoni non s’è fermata, se è vero che l’anno dopo l’outsider De Magistris è diventato sindaco della città e Pd (16,5) e Pdl (23) sono quasi dimezzati. E adesso? Chi farà il pieno di senatori (16 per chi vince, solo 9 da dividere tra gli altri) in questa regione di frontiera? Un modo per fermare Berlusconi e mettere le mani sul bottino il Pd l’ha (l’aveva?) individuato nell’offerta di desistenza rivolta ai «rivoluzionari» di Ingroia: niente liste qui e in Sicilia, e qualche senatore ve lo eleggiamo noi. «Mi pare difficile - annota Sandro Ruotolo, candidato a Napoli con l’ex magistrato -. Intanto perchè i sondaggi ci danno in ascesa, e quando il marchio sarà più noto andrà ancor meglio; e poi perché in queste storie dipende anche da quel che si offre. Io so poco, ma si parla di briciole». E così, la Grande Battaglia si conferma ad alto rischio per il Pd, visto che anche il Centro (forte nelle zone interne) schiera i big, da Casini capolista al Senato ad un De Mita (Giuseppe, vicepresidente alla Regione) che è sempre una garanzia... La gente, intanto, si guarda intorno cercando di capire. E annota la difficoltà dell’antica capitale. Fondazioni più o meno radicate (da Sudd, di Bassolino, a MezzogiornoEuropa) chiudono i battenti o annaspano tra le difficoltà. Il tessuto culturale e civile, si sfilaccia. Tanto che il maestro Roberto De Simone si spinge a dire che votare non ha più senso. Urlarlo oggi, alla vigilia della Grande Battaglia, sembra una follia. O la conferma che, Senato o non Senato, quaggiù c’è chi non sa più a che santo votarsi...