Guido Olimpio, Corriere della Sera 17/01/2013, 17 gennaio 2013
DALLE OASI LIBICHE A TIMBUCTU’. L’ARSENALE SEGRETO DEI JIHADISTI —
Mokhtar Belmokhtar, l’intoccabile, sospettato di essere coinvolto nella presa di ostaggi a Amenas, Algeria, ha fatto la spesa per bene. Nel marzo di un anno fa, informatori maliani hanno segnalato il suo viaggio in un’oasi libica dove ha incontrato dei commercianti speciali. Un po’ di trattative, poi l’intesa e se ne è tornato indietro, verso la zona d’operazioni, con le armi ben oliate e mezzi in ottimo stato. Belmokhtar, capo della Brigata qaedista definitasi «coloro che firmano con il sangue», ha fatto ciò che aveva promesso un anno prima in un’intervista: «E’ naturale per noi rifornirci con quello uscito dagli arsenali libici». E il terrorista, noto per le sue connessioni con il mondo del contrabbando — era il suo vecchio lavoro — si è servito di questo gigantesco mercato a cielo aperto. Una realtà che si è sviluppata in diverse località, remote ma ben vicine alle aree di conflitto. Con la sconfitta di Gheddafi, i depositi sono diventati «un bene rivoluzionario» e le diverse milizie hanno tenuto una parte del materiale rivendendo il surplus. Enorme.
I servizi di sicurezza americani, francesi e italiani, in questi mesi, hanno indicato alcune delle rotte dei trafficanti. La prima ha come perno l’oasi libica di Gadames, al confine con Algeria e Tunisia. E’ strategica, serve molti clienti, è tra le preferite dei qaedisti, anche tunisini. Da Bengasi si dipana quella che rifornisce, via Egitto, i palestinesi nella striscia di Gaza. Attiva come non mai, spedisce sopratutto razzi. Quella «centrale», che ruota attorno a Sebha e Mourzuk, sfrutta la vecchia via del sale. Infine nel Sud-Est il quadrante di Kufra. Qui arrivano e agiscono intermediari locali e i loro «colleghi» provenienti dal cuore dell’Africa. Indaffarati, ovviamente, i tuareg. Quelli di credo islamista e i laici del movimento Azawad. Tanti di loro avevano militato nell’esercito libico e se ne sono andati quando hanno capito che per il raìs era finita. Ma non hanno rinunciato ai loro sogni di indipendenza nel Mali e li hanno alimentati portandosi dietro un po’ di armi. Poi, grazie ai contatti, ne hanno procurate altre finite spesso alle fazioni jihadiste, dal Mujao Aqim, oggi impegnate negli scontri con la Francia. Un flusso sviluppatosi per fasi con il crescere della tensione nel Sahel.
Chi segue il trend dei fucili ha evidenziato almeno tre fasi. La prima è, appunto, quella che si è sviluppata dopo il crollo del regime gheddafiano. E’ in questo modo che agli islamisti sono arrivate le mitragliatrici russe ZSU, i lanciarazzi di tipo katyuscia, cannoni senza rinculo, mortai, probabilmente qualche missile antiaereo Sam 7, munizioni in quantità. Grazie ai rifornimenti i ribelli hanno potuto lanciarsi nella campagna di conquista mettendo in fuga il disastrato esercito maliano. Che ha abbandonato il Nord lasciandosi dietro veicoli blindati, mezzi, scorte che hanno finito per rafforzare i loro nemici (è la seconda fase). E l’armamento di Al Qaeda è cresciuto ancora. Poi, quando si è iniziato a parlare di un intervento dell’Onu, i terroristi hanno dato vita alla terza fase. Trafficanti regionali e internazionali sono stati contattati per ottenere equipaggiamento più sofisticato. In alcune capitali africane si sarebbero svolte trattative serrate mentre altri emissari sono tornati sul mercato libico. I qaedisti hanno chiesto visori notturni e apparati di comunicazione adeguati per coordinare azioni veloci.
In questi giorni i ribelli hanno mostrato di cosa sono capaci. Lasciate le posizioni più esposte, ne hanno attaccate altre a centinaia di chilometri di distanza attraversando confini segnati sulle mappe ma inesistenti per i terroristi transnazionali. Anche perché molti governi fanno poco per fermarli. I francesi bombardano gli islamisti a nord, loro sbucano a sorpresa a ovest. Infiltrazioni dalla Mauritania nel Mali occidentale, incursioni nel Sud della Tunisia, il colpo di mano nell’Est dell’Algeria con decine di persone nelle mani di Al Qaeda. Una dispersione che è anche moltiplicazione delle «Kataeb», le brigate, feroci quanto temprate da anni di vita in una terra poco ospitale.
Fondamentali per questi movimenti i mezzi. Una volta i predoni del deserto si lanciavano nei loro raid a dorso di cammello. Resistenti, veloci, adattabili. Oggi si affidano ai camioncini di marca giapponese, i robusti pick up della Toyota, e a qualche jeep. A bordo di questi mezzi sono capaci di compiere lunghi tratti, quasi che filassero su un’autostrada inesistente. Invece percorrono le vecchie carovaniere che solo in apparenza sono lisce. Ex ostaggi hanno raccontato che gli estremisti coprono anche 800 chilometri in un giorno. Usano Gps o le stelle per orizzontarsi, hanno inventato sistemi empirici per ritrovarsi in caso che una delle jeep perda il contatto, i loro autisti sanno come tenere insieme questi muli su quattro ruote.
Rispetto al passato, i qaedisti hanno lavorato anche sui veicoli aggiornandoli tenendo conto dell’esperienza libica. E’ aumentata la potenza delle bocche di fuoco installate a bordo, sono state accresciute le scorte ed è stato ampliato il parco macchine grazie ai pick up acquistati oltre confine. Certamente le colonne jihadiste possono essere prese di infilata dai raid di elicotteri ma, al tempo stesso, possono trasformarsi in «nidi di vespe». L’ultimo sciame, composto da 15 camionette, ha investito il sito Bp ad Amenas.
Guido Olimpio