Roberto Giardina, ItaliaOggi 17/1/2013, 17 gennaio 2013
ISTANBUL STUNDE, ORA DI ISTANBUL
Verso le 18, in Germania, per 3 milioni di turchi scatta la Istanbul Stunde, l’ora di Istanbul, e non riguarda il fuso orario (che è avanti di 60 minuti). Dalla Baviera al Baltico trasmettono da anni due canali in lingua turca, e via cavo le famiglie possono ricevere le emittenti di casa. Non occorre installare le «padelle» sui balconi come in passato, che a Berlino segnalano la presenza degli immigrati dal Bosforo.
Quando sono finito su uno di questi canali per caso, ho notato che tutte le turche devono essere bionde, almeno a stare alle capigliature di giornaliste, presentatrici e protagoniste delle serie.
I fautori dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea sostengono che sarebbe un ponte con il mondo arabo.
E negano la storia. L’impero ottomano è ricordato come un’era di oppressione dagli arabi. Oggi, anche i turchi non sono tanto favorevoli all’ingresso nella Ue, con cui d’altra parte hanno da sempre rapporti molto particolari, quasi da stato membro. Ma le loro soap opera stanno compiendo una rivoluzione culturale in Medio Oriente e in Nord Africa. Milioni di telespettatori seguono di giorno in giorno le vicende di famiglie di Izmir, la nostra Smirne, di Istanbul, di Ankara, e sono lentamente contagiati dal modo di vivere alla turca, non sempre conforme agli insegnamenti di Maometto.
Non c’è sera che su qualche canale non venga trasmessa una serie turca, naturalmente doppiata in arabo. Anche i nomi dei protagonisti vengono cambiati: Mehemed diventa Muhannad, e la bella Gümüs si trasforma in Noor, «luce», che dà in arabo il titolo alla serie. All’inizio si cercava, «all’italiana», di censurare le storie, come in passato da noi il film hollywoodiano L’amante del bandito si trasformava nella più corretta e improbabile Moglie del fuorilegge nel selvaggio West. Si tagliano ancora, di tanto in tanto, le scene di amore extraconiugale, e allusioni ad aborti e altri peccati, ma, se si esagera, la storia non funziona più, e i telespettatori arabi comunque intuiscono cosa viene loro celato.
Noor dirige una casa di moda a Teheran, guida una fuoriserie, cena all’occidentale in ristoranti di lusso e frequenta locali notturni. È costretta a sposare per ragione d’interesse Muhannad, e poi la storia continua secondo i prevedibili luoghi comuni: finiranno un giorno per amarsi, mentre continuano a tradirsi? Come fare a censurare il messaggio della storia? Quel che i fan arabi della serie vedono è che una donna può condurre la sua vita, guidare un’impresa e imporre la sua volontà. Che vengano tagliate le scene erotiche alla fine conta poco.
In un’altra serie intitolata Amore proibito, una moglie ha una relazione con il giovane nipote del noioso marito. In un’altra, una ragazza è obbligata a sposare il suo stupratore, ma ama un altro uomo. Le donne sono le protagoniste, a volte vittime, alla fine vincono, e sono trattate con rispetto, commenta la Frankfurter Allgemeine am Sonntag. Oggi, oltre 150 serie turche vengono trasmesse in 73 paesi, e ogni puntata viene comprata in media per 125 mila dollari (circa 94 mila euro). Un grande affare, che porta ogni anno nelle casse del premier Erdogan oltre 100 milioni di dollari (oltre 75 milioni di euro). E grazie agli amori delle eroine televisive prospera anche il turismo turco: arrivano gli arabi nei migliori alberghi lungo le coste dell’Egeo e aumenta l’export turco nei vicini paesi arabi. Soprattutto aumenta l’influenza turca. Erdogan, infatti, raccomanda ai produttori di evitare ogni riferimento storico o battuta che possa offendere gli arabi. In 85 milioni seguono le peripezie di Noor e, di questi, 50 milioni sono donne. Il loro mondo cambia, e loro cambieranno la realtà in cui sono costrette a vivere. Una serie tv può essere più importante di una risoluzione dell’Onu.