Lucio Caracciolo, la Repubblica 17/1/2013, 17 gennaio 2013
QUEL CHE RESTA DEL COLONIALISMO
SE SEI stato un impero, non finisci mai di esserlo. Se poi eri l’impero francese, che all’alba della Seconda guerra mondiale si estendeva per 12 milioni e mezzo di chilometri quadrati (ben più dell’intera Europa, venticinque volte l’Esagono, inferiore solo al Commonwealth britannico), il passato non passa mai. Nel caso lo dimenticassimo, ce lo ricorda l’attualità.
Oggi l’élite delle forze armate tricolori si sta battendo nel cuore del Sahara/Sahel per impedire che alcune bande di terroristi s’impadroniscano di quel che resta del Mali, già Sudan francese. Siamo in piena ex Africa occidentale francese, enorme spazio coloniale che, insieme al corrispettivo territorio africano-equatoriale componeva fino a tre generazioni fa il sistema imperiale gestito da Parigi nel Continente nero, abbracciandone più di un terzo.
A ogni impero corrisponde un’ideologia. Da Napoleone in avanti, per la Francia si tratta(va) della «missione civilizzatrice ». Non solo conquista di territori e sottomissione di popoli, a colorare di proprie tinte i planisferi. E neanche puro sfruttamento economico — la politica coloniale come figlia della politica industriale. Molto di più. Si tratta(va) di fertilizzare il mondo disseminandovi i valori universali della Francia rivoluzionaria. Come diceva Jules Ferry, che ai tempi della Terza Repubblica battezzò la scuola laica gratuita e obbligatoria, «le razze superiori hanno diritto di civilizzare le razze inferiori ». (Quando François Hollande vorrà ricordare Ferry nel suo primo discorso pubblico, alle Tuileries, non mancherà di condannarne questo «errore morale e politico».) Solo gli Stati Uniti vorranno poi, con superiori mezzi, seguire un analogo percorso missionario, suscitando perciò una competizione squilibrata ma persistente con l’universalismo francese. Sicché oggi deve costare molto all’Eliseo chiamare in soccorso la Casa Bianca per garantire le coperture satellitari, logistiche e di intelligence di cui il proprio corpo di spedizione in Mali non può disporre.
Di più, il colonialismo francese non si fondava sulla geopolitica delle teste di ponte costiere, alla portoghese, né tantomeno sul dominio indiretto, all’inglese, ma sul principio dell’assimilazione. L’impero come estensione del territorio metropolitano, anche sotto il profilo amministrativo. Le classi dirigenti locali venivano (vengono) educate sui manuali e con le tecniche distillate nei laboratori del grandioso apparato statale centrato su Parigi e di lì irradiato nei dipartimenti, africani inclusi.
Dopo la strana vittoria del 1945 — e sotto la pressione degli Stati Uniti, che volevano concentrare tutte le energie occidentali nel contenimento dell’imperialismo sovietico — la Repubblica francese è costretta a cedere, pezzo per pezzo, il grosso dei suoi domini extraeuropei. Ne rimane oggi pallida traccia, sotto forma di regioni, dipartimenti e altre entità d’oltremare, da Mayotte alla Riunione, dalla Nuova
Caledonia alla Polinesia, da Martinica alla Guyana. Ciò che contribuisce a difendere il rango mondiale della Francia, sigillato dal titolo di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dall’arsenale nucleare. Rango cui Parigi tiene moltissimo, anche per bilanciare la crescita della potenza tedesca in Europa.
Quanto all’Africa, dopo il lutto non ancora elaborato della guerra d’Algeria, la Francia ha
saputo mantenervi una sfera d’influenza che ricomprende grosso modo le sue antiche terre imperiali. A fondarlo contribuisce lo strumento linguistico- culturale, istituzionalizzato nella francofonia, per marcare il senso geopolitico della difesa dell’idioma nazionale. Insieme, un reticolo di relazioni politico- economiche, a lungo centrato sulla “cellula africana” dell’Eliseo, diretta fino a pochi anni fa da Jacques Foccart. È la
Françafrique,
termine divenuto peggiorativo per la penna di François-Xavier Verschave, che la denunciò nel 1998 come organizzazione criminale segreta incistata nelle alte sfere della politica e dell’economia transalpina. Basata sulla corruzione, sui rapporti personali con questo o quel dittatore/padrone (franco)africano, sugli interessi dei “campioni nazionali” dell’industria transalpina, specie nel settore energetico e minerario. Una macchina da soldi, infatti ribattezzata
France- à-fric da
giornalisti malevoli.
Sarkozy prima e Hollande poi hanno preso le distanze dalla
Françafrique,
ma chiunque voglia vederle ne trova ancora forti tracce nei territori africani già inglobati nell’impero tricolore. Vi restano anzitutto i privilegi della grande industria, che incarna interessi strategici irrinunciabili (per esempio, lo sfruttamento dell’uranio nigerino da parte di Areva, vitale per la produzione energetica nazionale).
Parigi non rinuncia al ruolo di gendarme nella “sua” Africa — anche oltre, come dimostra il caso libico. Nel Continente nero restano schierati in permanenza circa 7.500 soldati francesi. Nel solo teatro maliano, il ministero della Difesa prevede di impegnarne a breve 2.500, e forse non basteranno per evitare l’insabbiamento della missione antiterrorismo. Certo, l’epoca dell’“unilateralismo” è passata, oggi Parigi cerca (e talvolta non trova) il sostegno degli alleati occidentali e dei paesi africani più vicini alle zone di crisi. Più che una scelta, il “multilateralismo” — ossia l’impiego di risorse altrui per fini propri, o almeno il tentativo di farlo — è una necessità. Alla fine, quel che conta è proteggere il rango dell’Esagono nel mondo, la grandezza della Francia. Anche per questo, nelle carte mentali dei decisori francesi la memoria dell’ex (?) impero campeggia vivissima.