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 2013  gennaio 16 Mercoledì calendario

UN UOMO CHIAMATO AGNELLI

Chi era e che autorità aveva l’uomo che riceveva con discrezione i politici per parlare di idee, attento, curioso, senza alcun finto distacco, a non sovrapporre mai una sua opinione o un suo punto di vista alle parole delle persone che ascoltava? È vero che l’uomo di cui stiamo parlando usava spesso la parola “divertente”. Ma non accadeva mai che la usasse per descrivere le persone che gli interessavano. Gli interessavano se portavano “novità”. Questa, si, è una parola chiave, nel parlare di lui. Per “novità” intendeva qualcuno che aveva in mente, o stava facendo – e poteva far meglio o in modo diverso – qualcosa che non era ancora accaduto. E questo, certo, riguarda le due persone che sono state intervistate da Repubblica, per ricordare Gianni Agnelli nel decimo anniversario della sua scomparsa, Giorgio Napolitano e Carlo De Benedetti.
IL PRESIDENTE della Repubblica ha voluto raccontare che siamo andati insieme a quel suo primo incontro americano con Gianni Agnelli, e ha detto a Ezio Mauro una cosa importante, dimenticata e poi cancellata dall’onda malevola degli eventi che, poco dopo, hanno investito l’Italia, ben più rovinosi degli anni di piombo, quando tutto si è trasformato in scambi di protezioni e di affari. Napolitano – ha detto – è andato da Agnelli per parlare dei rapporti (e legami e ansietà e problemi) fra l’Italia e gli Stati Uniti, lui come voce prestigiosa e autorevole di un grande partito italiano (il più discusso, il più studiato, il più interessante e preoccupante per i politologi americani). E Agnelli come l’uomo considerato dallo “Editorial Board” (la conferenza degli editorialisti) del Washington Post, del New York Times, del Wall Street Journal come la sola voce italiana a cui chiedere e da cui ricevere indicazioni e background (fatti che orientano) per decifrare l’Italia. Posso dire: niente di sussurrato, mai alcun “a parte” da teatro, perché Agnelli si sentiva responsabile del suo parlare per l’Italia (non fingendo mai un potere attiguo al governo, ma sapendo bene la sua influenza), e perché l’implacabile giornalismo americano avrebbe pubblicato subito e tutto in caso di errore. Però la sua non era astuzia o bravura sociale nell’affrontare, raccontare e rispondere su situazioni italiane intricate.
CERTI MOMENTI della nostra vita politica erano del tutto inspiegabili da fuori e da lontano (tanto che quando toccava a me tradurre all’improvviso, di solito durante la visita in una università, le dichiarazioni di un nostro presidente del Consiglio, inventavo benevolmente le frasi altrimenti intraducibili, quasi sempre riferite a scontri interni italiani). Quello di Agnelli, però, non era solo il tentativo continuo di chiarire. Il suo era un senso accorto, ma anche profondo di responsabilità. Qualcosa era accaduto intorno a lui e di cui lui era consapevole, con uno straordinario senso del limite che si era autoimposto. Era portatore di una credibiltà e di un carisma che non era mai toccato a un altro europeo, fuori o dentro dagli affari o dalla politica. Certo, era il presidente della Fiat (“E ti pare poco?” aveva risposto a un amico che lo invitava ad avere una vita più libera da tanti impegni). Ma dal punto di vista delle fabbriche e dei padroni di fabbriche, l’America aveva ben altro, in casa e nel mondo. Eppure non c’è stato, in tutti i decenni di cui stiamo parlando, un altro personaggio con il prestigio e la credibilità di Gianni Agnelli, negli Stati Uniti. In tutto quel periodo ero presidente della Fiat Usa, non per i miei agganci a Wall Street, che non ho mai avuto (e a cui si dedicavano persone competenti) ma per la lunga frequentazione della vita politica americana, Congresso e Casa Bianca (specialmente se il presidente era democratico). Dunque io partecipavo sempre alle visite a Washington, a volte in circostanze che non ho dimenticato, come quando siamo andati da George Bush padre ad annunciargli che Gheddafi non era più azionista della Fiat. Per questo posso dire che Agnelli non ha mai giocato a fingere di governare o di pesare sul suo Paese (mi riferisco anche solo al tono delle sue risposte). Non ha mai lasciato intravvedere una sovrapposizione agli eventi o al potere politico nel suo Paese o l’ombra di un distacco dalle istituzioni. Ma il suo rappresentare la situazione era chiaro e privo di ambiguità. Non solo perché la conversazione era il suo strumento straordinario di comunicazione (di qui la persuasione che fosse frivolo e mondano. Lo era, con i frivoli e con i mondani, ma per un tempo limitato, da cui l’altra persuasione: si annoia. Era vero. Nonostante le sue buone maniere, si annoiava molto presto con i noiosi). Gli interessavano persone come Arthur Schlessinger e Henry Kissinger, due protagonisti, due testimoni, due intellettuali harvardiani, a cui dedicava le prime telefonate (e spesso le prime serate) appena arrivato a New York. E conversazioni lunghissime.
ECCO PERCHÉ Giorgio Napolitano si è trovato subito a suo agio, con Agnelli nel suo incontro americano, due conversatori attentamente informati, su temi grandi e veri. Ecco perché ha ragione Carlo De Benedetti quando dice al suo intervistatore (Dario Cresto Dina): “Per sua formazione e convincimento profondo gli ripugnava ogni forma di demagogia”.
Forse sostituirei la parola con “populismo”. C’è però una frase di Agnelli che appartiene al mondo imprenditoriale, ma che viene dal mondo militare. Non la condividevo allora e non la condivido oggi, pensando a ciò che è accaduto dopo di lui: “Tutti siamo utili, nessuno è indispensabile”. Mi piaceva di più la sua risposta a un gruppo di ragazzi italiani incontrati in una visita ad Harvard: “No, non mi sono fatto da solo. Diciamo che non mi sono disfatto”. E non è poco.