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 2013  gennaio 16 Mercoledì calendario

GUIDOLIN, LA VITA DA BEST A SACCHI: «IO, RIVOLUZIONARIO CON L’ANSIA» —

Francesco Guidolin, allenatore dell’Udinese, sabato a Torino, contro la Juve, lei farà 500 panchine in serie A. Come arriva all’appuntamento?
«Mi sento in gran forma. Mi piace lavorare, preparare la partita. Ancora non mi pesa. In panchina soffro sempre troppo ma questo fa parte del mio carattere un po’ ansiogeno».
C’è un aggettivo per definire questo traguardo?
«Storico. Perché entro nella storia del calcio italiano. Se penso che sono assieme a gente come Mazzone, Trapattoni, Liedholm, Rocco e Bernardini mi vengono i brividi. Se poi aggiungiamo tutte le altre partite delle serie inferiori e quelle dell’anno a Monaco arriviamo a 920. È bello fare 500 proprio qui, dentro questo territorio che sembra costruito apposta per me».
Ricorda la sua prima panchina in serie A?
«Come no? Atalanta-Cagliari 5-2. Uno spettacolo. Fu un esordio scoppiettante».
Però dopo 10 partite a Bergamo le diedero il benservito.
«Ero troppo giovane. Non ero pronto per il grande salto. E poi la squadra aveva comunque dei problemi, difatti retrocesse. È stata la classica musata che aiuta a crescere».
Che calcio era quello di 500 panchine fa?
«Allora non avevo l’allenatore in seconda. Si gestivano gruppi di 18-20 persone. Adesso, tra tecnici e preparatori atletici, ho con me 12 collaboratori. A proposito, un grande abbraccio a tutti quelli che hanno lavorato con me: se ho raggiunto questo traguardo è stato grazie alla loro pazienza. Mi hanno sopportato e supportato».
In questi vent’anni com’è cambiato il suo calcio?
«Ero un sacchiano convinto e ambizioso. Sono partito da lì e poi ho fatto le mie esperienze, ho sperimentato tutti i sistemi di gioco. Credo di essere stato il primo ad applicare in Italia il 4-2-3-1».
Qual è stata la squadra più forte che ha allenato in carriera?
«L’Udinese 2010-2011 e il Palermo del quinto posto, quello di Amauri del 2006-2007».
E la squadra più forte che le è capitato di affrontare?
«Probabilmente la Juve di Lippi. Per carattere e temperamento era abbastanza simile alla Juve di Conte ma con maggiore qualità».
I tre più grandi calciatori con cui ha lavorato?
«Di Natale, Signori, avuto a Bologna, e Vieri con me a Monaco. E devo escludere campioni come Amauri, Cruz, Toni, il giovane Cavani, Sanchez e Milito».
I suoi allenatori cult?
«Bagnoli e Sacchi. Bagnoli è quello che mi ha formato di più, era saggio e intelligente. Ho cercato di ispirarmi a lui anche per la riservatezza. Sacchi invece mi ha tramortito con la sua rivoluzione».
La gioia più grande?
«Ne ho tante, per fortuna. Però quando penso alle mie 500 panchine di A non posso non ricordare che ho fatto tre volte il campionato di serie B con Vicenza, Palermo e Parma e che l’ho sempre vinto. Ovviamente la Coppa Italia conquistata con il Vicenza, una provinciale in tutto e per tutto, resta indimenticabile».
La delusione?
«A Bologna. Al termine di un campionato giocato nelle prime posizioni, perdemmo a Brescia e ci ritrovammo improvvisamente settimi, fuori non soltanto dalla Champions League ma anche dalla Coppa Uefa. Finimmo in Intertoto. Era il 5 maggio 2002, Così io, da interista, ho vissuto un 5 maggio doppio».
Perché la sua esperienza nel Principato di Monaco è stata così breve, un anno appena?
«Avrei potuto continuare ma avevo riannodato il filo del discorso con il Palermo con cui potevo giocarmi una classifica importante, era l’anno delle penalizzazioni. A Monaco fu comunque una stagione molto bella. Lì ho capito che all’estero professionalmente si sta meglio, c’è un’aria più rarefatta, più serena che da noi».
Il Guidolin giocatore, molle e poco motivato, come si troverebbe con il Guidolin allenatore?
«Non avrebbe avuto vita facile. Non mi piace chi ha le potenzialità per emergere e non le sfrutta. Però cerco di aiutare quei giocatori che un po’ mi assomigliano: non voglio che sbaglino dove ho sbagliato io».
Ha mai allenato un Balotelli?
«Qualche testa calda l’ho allenata. E anche lì ci ho messo tempo, energia e passione per indirizzare sulla strada giusta chi stava sbagliando. A volte riesci, a volte no».
Lei è scaramantico?
«Un po’, non in modo maniacale. Non lo trovo molto intelligente. Però diciamo che le scarpe con cui vado in panchina sono un modello quasi vintage».
Chi le sarebbe piaciuto incontrare nel corso della sua vita, magari soltanto per stringergli la mano?
«Vista la mia passione per il ciclismo, sicuramente Eddy Merckx».
C’è una canzone che ha caratterizzato in modo particolare questi suoi vent’anni di serie A?
«‘‘Comfortably numb’’, stupenda, dei Pink Floyd. Ero un fan dei Pink Floyd e uno dei miei rimpianti è quello di non essere mai riuscito ad assistere a un loro concerto».
Oltre alle 500 panchina in A, nel 2013 festeggia quarant’anni di calcio professionistico. Che Italia era quella di quarant’anni fa?
«Il 4 agosto del ’73 iniziò il mio primo ritiro con il Verona. Avevo diciott’anni. Era tutto diverso, io ero diverso. Era un’Italia che usciva dal ’68, era l’Italia dei capelli lunghi e dei basettoni. Anch’io ero così, come George Best. Era una bella Italia, forse perché ero giovane e avevo lo sguardo diritto e aperto nel futuro come cantava Pierangelo Bertoli».
Dopo quarant’anni nel pallone il 2013 sarà l’ultimo di Guidolin in panchina?
«Non lo so. Verrà il momento delle riflessioni. Alcune le sto già facendo».
Ad esempio?
«Fare qualcosa di diverso nel mio mondo. Vorrei rimanere a Udine, lavorando con la famiglia Pozzo, anche non da allenatore. Magari con un ruolo di coordinatore tecnico dei nostri tre club: Udinese, Watford e Granada».
Potesse tornare indietro che cosa cambierebbe di quello che il destino le ha fin qui riservato?
«Mi giocherei in maniera diversa, più coperto, la semifinale di Coppa delle Coppe con il Chelsea. Avevamo vinto 1-0 a Vicenza con un gol di Zauli e stavamo vincendo 1-0 anche a Stamford Bridge con una rete di Luiso al quale fu pure annullato un gol valido. Per essere eliminati avremmo dovuto prendere 3 gol e prendemmo 3 gol, di cui 2 in contropiede. Ecco, se ne avessi la possibilità, se avessi la bacchetta magica, mi rigiocherei quella partita».
Alberto Costa