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 2013  gennaio 16 Mercoledì calendario

LA FIDANZATA, GLI AMICI, IL PROF: «AARON UCCISO DALL’OTTUSITA’» —

«Aaron non è morto suicida. È stato ucciso da un governo ottuso e tradito da un’università che l’ha fatto perseguire per sottrazione fraudolenta di "paper" accademici, anche se il Mit dovrebbe essere uno dei più grandi templi della diffusione del sapere». Robert, padre di Aaron Swartz, il genio della Rete, ideatore del sistema RSS e cofondatore di Reddit, parla con voce profonda, calma, durante la cerimonia funebre per il figlio, toltosi la vita venerdì scorso a New York. Siamo in un piccola sinagoga di mattoni rossi ad Highland Park una cittadina residenziale sul lago Michigan, a metà strada tra Chicago e Milwaukee.
Fuori ci sono molte auto nere della polizia e diverse pattuglie di attivisti di Anonymous e i simpatizzanti della battaglia di Swartz per un «open access» libero e universale: idee da vero «guerrigliero digitale», anche a costo di forzare i sistemi informatici di sicurezza e di mandare in soffitta il concetto di proprietà intellettuale. Ragazzi che sono venuti a dare una loro testimonianza, dopo l’enorme emozione per il gesto disperato di Aaron che si è tolto la vita schiacciato tra la depressione e la prospettiva di finire in carcere, stritolato da un sistema giudiziario che ha trattato un ribelle idealista come il peggiore dei criminali. Che ha trasformato l’applicazione di un principio in sé giusto in una vera persecuzione. Ma la gente è lì anche per fare da cordone di protezione contro la Westboro Baptist Church: una chiesa — in realtà una setta estremista — che aveva minacciato di turbare il funerale manifestando contro la memoria di Aaron, bollato come «uno di quei cybercriminali che sono l’ultima faccia della sfida blasfema dell’uomo a Dio». Ma i disturbatori non arrivano e, nella sinagoga, famiglia e amici possono celebrare il loro dolore infinito e l’incredulità per questa vicenda che sta trasformando un ragazzo straordinario e fragile nel primo martire dell’era digitale.
È già così sulla Rete, dove da giorni infuriano le accuse contro i giudici, lo Stato e tutte le «istituzioni conservatrici» che difendono il vecchio ordine, dall’università ai media tradizionali. Anche la cerimonia contribuisce all’immagine del martirio, ma nelle parole di Robert, degli amici, dei professori, della fidanzata, c’è più sconcerto che rabbia. Non una ribellione antisistema, ma lo stupore di una comunità progressista davanti allo Stato faro della democrazia nel mondo che si dimostra feroce, incapace di applicare con equilibrio leggi vecchie e generiche che lasciano ai magistrati (in teoria anche loro progressisti) enormi margini per interventi discrezionali.
Certo, con la morte di Aaron torna in primo piano la disputa sul copyright: la battaglia tra i difensori della legalità, dei diritti di proprietà intellettuale e gli attivisti della Rete che vogliono smantellare il sistema, imporre una rivoluzione culturale in un sistema che giudicano irriformabile con gli strumenti tradizionali. Gli amici che hanno condiviso con lui queste battaglie ricordano adesso la sua passione, l’impegno a battersi per l’«open access» sempre e ovunque, il suo desiderio di aprire la strada a nuovi paradigmi, di diventare una specie di prototipo di un nuovo tipo di intellettuale pubblico: «Aveva mille idee», ricorda uno di loro, «voleva trasformare anche la politica, ma senza approcci ideologici. Il suo era un atteggiamento da "computer scientist". Aveva visioni come quella delle "robo-polls", sondaggi automatici, affidabili e a basso costo che potrebbero cambiare le nostre vite e la democrazia. E voleva partire subito. Era febbrile, impaziente, questo il suo problema».
Tutti sanno che Aaron era psicologicamente fragile. Aveva grandi idee, ma era anche depresso. Pensava alla velocità della luce, ma quando si fermava a riflettere scopriva di aver commesso errori più o meno gravi. «Come quando — ricorda un suo professore — due anni fa definì un assassino, uno dei partecipanti a una mia iniziativa culturale. Ci rimasi malissimo e glielo dissi. Lui mi scrisse, disperato, ammettendo di aver sbagliato: "Un eccesso di zelo nel mio frenetico tentativo di difendere la mia totale indipendenza di giudizio", provò a spiegarmi». Un aneddoto che rende bene la psicologia di questo innovatore e attivista passato per «hacker» agli occhi degli inquirenti. Uno che la legge l’ha violata più volte, entrando nei sistemi di certificazione pubblica e poi negli archivi del Massachusetts Institute of Technology, ma per aprirli a tutti, per offrire documenti federali gratis, anziché costringere gli utenti a pagare una, pur minima, tariffa. Una specie di Robin Hood delle tecnologie informatiche, insomma, non un ladro d’identità. Certo, se rubi maglioni in un negozio quel gesto resta un reato e può portarti in prigione anche se l’hai fatto per regalarli agli «homeless». E adesso non è da escludere il rischio che la vicenda di Swartz — che agli occhi di Lawrence Lessig, il docente di Harvard massimo teorico della demolizione del copyright, è già «un’icona e un esempio» — venga utilizzata strumentalmente da chi vuole condizionare il futuro digitale in modo assai meno disinteressato. Ma, ascoltando il racconto della famiglia e degli amici, non si può non essere colpiti dalla distanza tra gli errori, la foga di questo giovane genio informatico e l’ottusa risposta di un sistema giudiziario che ha applicato una legge troppo generica che risale agli anni Ottanta. Ma nel Paese in cui, come ha ricordato in lacrime la fidanzata di Swartz, Taren, vengono emesse le condanne al carcere più dure del mondo, i magistrati di Boston non hanno mostrato flessibilità, non hanno cercato di capire.
Altri geni, ha ricordato papà Robert — da Steve Jobs a Mark Zuckerberg, hanno ammesso di aver trasgredito qualche norma nella loro vita turbinosa, ma l’hanno fatta franca. Aaron ha, invece, trovato magistrati per i quali «un furto è sempre un furto, che sia fatto col computer o con un piede di porco» e che, davanti al timore di un suicidio dell’imputato, hanno suggerito la «profilassi» dell’incarcerazione.
«Aaron» ricorda ora il suo avvocato, «voleva andare al processo di aprile con un’arringa sullo spirito della rivoluzione americana da pronunciare lì, in quel tribunale affacciato sulla baia di Boston. Ma non ce l’ha fatta».
Massimo Gaggi