Mario Sensini, Corriere della Sera 16/01/2013, 16 gennaio 2013
LE TASSE? SONO SEMPRE EREDITA’ DEI GOVERNI PRECEDENTI —
«Il nostro era uno strumento completamente diverso da quello adottato dal governo Monti che spaventa i cittadini». Anche Silvio Berlusconi sconfessa la paternità del redditometro e con l’avvio della campagna elettorale l’elenco delle tasse «orfane», inesorabilmente, si allunga. Senza padre o madre che ne rivendichino la genitura, il redditometro va a far compagnia all’Imu, la nuova tassa sulla casa, e all’aumento delle aliquote Iva sui generi di consumo. Tutte tasse che hanno fatto e faranno malissimo agli italiani, come la nuova imposta sulla nettezza urbana o quella sui conti correnti e i prodotti finanziari che ben presto, c’è da scommetterci, si aggiungeranno alla lista dei tributi disconosciuti, o ripudiati.
Non deve apparire strano che nessuno rivendichi i benefici che queste stesse tasse hanno portato ai conti pubblici, salvando il Paese dal baratro. Tra poche settimane si vota, e il pericolo, ormai, sembra scampato. Meglio prendere le distanze, quindi. Anche se tanto facile non sarà, visto che lo zampino sul redditometro, come sull’Imu e l’Iva, e le altre nuove tasse che turbano i sonni degli italiani, ce l’hanno messo tutti. Il centrodestra, il centrosinistra e la «strana maggioranza» che sosteneva il governo Monti.
La storia del redditometro, ad esempio è emblematica. Il principio secondo il quale il Fisco poteva procedere ad un accertamento del reddito dei contribuenti sulla base di «elementi di fatto certi» (come le spese), o su base induttiva, cioè considerando la disponibilità di certi beni di lusso, fece capolino nel nostro sistema tributario per la prima volta nel 1973, con il governo guidato da Mariano Rumor, ed Emilio Colombo al ministero delle Finanze. Il decreto con l’elenco dei beni che potevano segnalare ricchezza, e dunque aiutare a stanare i contribuenti infedeli, arrivò, però solo nel 1992.
Con la lira travolta dalla tempesta valutaria e i conti pubblici allo sbaraglio, il presidente del Consiglio Giuliano Amato ed il suo ministro delle Finanze, Giovanni Goria, dettero finalmente attuazione concreta al redditometro, che poi visse indisturbato per altri sedici anni. Giusto il tempo di veder arrivare i venti di un’altra crisi. Fu nell’estate del 2008 che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si convinse a rispolverare il vecchio redditometro per combattere l’evasione. Con la Finanziaria di quello stesso anno il governo Berlusconi varò un piano straordinario di controlli fiscali, dal 2009 al 2011, basati proprio sull’applicazione del redditometro «vecchia versione».
Poi la crisi peggiorò, le esigenze di cassa dello Stato divennero impellenti, e Tremonti rimise mano al redditometro. Era ormai il mese di luglio del 2011, ed il vecchio elenco del ’92 lasciò spazio alle cento voci del nuovo strumento, al quale per la prima volta venne attribuito un determinato gettito (815 milioni l’anno) e che oggi tutti contestano. Anche Mario Monti, benché pure lui, un annetto fa, nell’Atto di indirizzo all’Agenzia delle Entrate, insisteva anche per «consolidare l’azione di contrasto all’evasione attraverso strumenti che consentano la determinazione sintetica del reddito».
Ha origini bipartisan anche la tassazione delle rendite finanziarie, prevista nella delega fiscale dal governo di Romano Prodi nel ’96, ma effettivamente attuata solo dal governo di centro-destra. E c’è il timbro di Monti, come quello di Silvio Berlusconi, e di altri insospettabili, anche sull’Imu. L’Imposta municipale unica, come ricordava oggi Gianfranco Fini, venne di fatto inventata dalla Lega: se ne parlava nei primi lavori sul federalismo coordinati dall’allora ministro Umberto Bossi. E nasce con la legge delega 42 del 2009, anche se era espressamente previsto che non venisse applicata alla prima casa. Fu Tremonti, nel marzo 2011, a dare attuazione all’Imu anticipandola di un anno rispetto al previsto ma sempre con l’esenzione sulla prima casa. E poco dopo fu Mario Monti, con il decreto Salva Italia del dicembre 2011, ad estenderla alla casa d’abitazione, moltiplicando la base imponibile con la maxi rivalutazione delle rendite catastali, e ad anticiparla di altri due anni, al 2012.
Del resto bisognava raggiungere prima il pareggio di bilancio e dare garanzie all’Europa. Lo stesso motivo per cui è venuto fuori il «pasticcio» dell’Iva, altro regalo per il quale gli italiani non sanno ancora chi ringraziare. Siamo ancora a luglio del 2011 e davanti al precipitare degli eventi il governo Berlusconi mette in cantiere una manovra di risparmi aggiuntivi per il 2013 e il 2014. Si ipotizza un taglio lineare delle esenzioni e dei regimi fiscali agevolati che porti 4 miliardi nel 2013 e 20 dal 2014. Con due clausole di «salvaguardia»: la possibilità di evitare quella sforbiciata o grazie a una riforma complessiva dell’assistenza, oppure con «l’aumento delle imposte indirette». Cioè delle accise e dell’Iva, cosa che poi Monti, appena quattro mesi dopo, mise nero su bianco con un rialzo dell’Iva, in più tappe, di 2 punti e mezzo. Le clausole tremontiane non tenevano, e per dare credibilità alla manovra Salva-Italia, al momento, non ci fu altro da fare. Bisognava mettere in sicurezza un bilancio pubblico sconquassato. Il vero padre di tutte le tasse che abbiamo.
Mario Sensini